1986·12 — WWN • Martella·S & Fagioli·M • Freud è servito

Freud è servito


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Amore antico per l’uomo e per la materia. Da qui scaturisce la scommessa di una rapporto che rilancia la possibilità di una comunicazione diretta. La psicoanalisi di Massimo Fagioli.
Lo psichiatra nel cinema: una ipotesi di terapia applicata.

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Maruschka Detmers, interprete principale nel film “Il diavolo in corpo” di Marco Bellocchio. L’intervento dello psicoanalista nel film è giocato in un rapporto diretto con l’analizzando che finisce col rovesciare i cardini fondamentali dell’analisi individuale.
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In basso: “Berggasse 19” di Hans Hollein.
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“Balconata” di Escher (litografia 1945) fornisce una possibile interpretazione del rapporto onirico tra interno e esterno nell’abitare.
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Intervista con Massimo Fagioli
di Sergio Martella
WWN — (dicembre 1986), pp. 31-37.


Siamo a Roma, a due passi da Campo dei Fiori dove l’ombrosa statua del Giordano Bruno racconta una storia violenta di opposizione al monopolio culturale dei papi. Il monumento sorge sul luogo dove fu eretto il rogo a testimonianza di quanto strettamente l’affermazione di una idea fosse allora legata a una conferma fisica, alla riprova materiale. È una contraddizione di quei tempi il fatto che la “prova del fuoco”, inflitta sul corpo del malcapitato, lungi dal rappresentare pubblicamente una negazione diretta all’ateismo, finiva, caso mai, con il riconoscere la stretta connessione fra il corpo e la psiche.

Ancora pochi metri più in là, e piazza Trilussa apre alla sagra della Roma trasteverina.

Al di qua del Campo invece, in via Del Pellegrino c’è la casa di Massimo Fagioli. 50 anni, psichiatra discusso, fu espulso dalla Società Psicoanalitica Italiana dopo che ebbe pubblicato i suoi primi tre libri. Famosi sono ancora oggi i suoi seminari di analisi collettiva cui hanno partecipato migliaia di persone e molti personaggi. Queste riunioni terapeutiche, iniziate negli anni ’70 nelle aule dell’università, continuano a tenersi privatamente a Trastevere nella sede-teatro acquistata a questo scopo.

Come accade ad ogni protagonista che segua un suo tracciato originale, inevitabilmente Massimo Fagioli continua a far parlare di sé. Alla sala Rossini del Caffè Pedrocchi a Padova, in occasione della presentazione del suo ultimo libro “La donna dei fili”, lo scrittore veneto Ferdinando Camon ha rievocato cosi l’esperienza di quei seminari: «È una grande bolgia, impastata di passioni, che lì vengono vaporate da questi corpi, da queste menti sofferenti e ammassate. È una cosa di alto coinvolgimento. Su di essa perciò io non ho fatto, né farò mai della ironia».

Da poco si sono anche placati gli echi della polemica cinematografica e giudiziaria, sulla liceità dell’ingerenza dello psicoanalista sugli attori, sulla sceneggiatura e nel montaggio del film “Il diavolo in corpo” del regista Marco Bellocchio. Una volta ancora l’erotismo fa scandalo. Volano accuse di plagio.

Fagioli sorride, un occhio rivolto al passato da uno strabismo appena evidente. Ci accoglie parlandoci della sua casa; spiega che poggia le fondamenta su solide colonne romane, che il sottoportico che introduce al cortile risale all’anno mille. Qui è normale aspettarsi negli edifici una stratificazione verticale del tempo. Cominciamo a sospettare che il fatto che lui abiti al piano più alto non sia un elemento casuale. Nella sua casa, una abitazione non grande, accogliente, che concede ben poco all’eleganza, sorprende la semplicità, tutta improntata al presente.


Ovunque la comunicazione di massa si è sostituita ai rapporti interpersonali. Qui l’impressione è quella di vivere una dimensione più umana, come mai?

È questa parte di Roma che è caratteristica. Qualche isolato più in là, cambia tutto. È impossibile comprendere tutta intera la dimensione di questa città. Si può abitare a Campo dei Fiori, o sulla Nomentana, o ai Parioli, o al Gianicolo, ma non si può abitare Roma nella sua totalità.

Qui mi conoscono tutti. Se la mattina vado in Campo dei Fiori, mi trovo in un ambiente assolutamente familiare. C’è una realtà che unisce indistintamente tanta gente diversa: dal ciabattino, ubriaco dalla mattina alla sera, a quelli delle bancarelle, al giornalaio, qui posso fermarmi a conversare con Lama, Trombadori, Napolitano.

Non è una vita mediata dalla televisione. Sembra invece che i media continuino a insistere a riproporre cose che non interessano a nessuno. I Baudo e le Carrà in realtà non piacciono eppure sono sempre lì, a fare immagine spettacolo senza contenuto. Se una cosa esiste, la si può migliorare o sviluppare, se ne possono distinguere gli aspetti positivi da quelli negativi; ma se la sostanza non c’è, rimane solo un atteggiamento vuoto e consumista.


Secondo lei, chi è maggiormente responsabile di questa mancanza di contenuti nella qualità del vivere: la produzione, la comunicazione o lo stesso consumatore?

La sociologia televisiva vuole costringere le persone ad orientarsi, a incapsularsi in un certo modo. L’aspetto commerciale, soprattutto, è sempre lì, a far da deterrente. Ci sono dei grossi squilibri sia a livello di produzione di idee, sia di comunicazione, che nel consumo. La produzione di idee, io attualmente non la vedo. La comunicazione c’è, ma è contraffatta, artificiosa, banalizzante. Per il resto, non so come si muove il consumatore, quello che so è che ‹non ci crede›. Certo, all’inizio l’utente può anche cedere agli orientamenti pubblicitari, specialmente se è preso di sorpresa, ma poi sa difendersi, proprio perché fondamentalmente non crede a quello che gli viene propinato. Esiste invece il rischio che, in mezzo a tanta noia, perfino la mediocrità diventi divertente.


A torto o a ragione i più giovani oggi sono considerati dei superficiali anche nei consumi. Qual è la sua opinione?

I giovani non si orientano per niente. A quattordici anni devono affrontare le difficoltà che erano nostre a venti, hanno davanti a loro la stessa ricerca nel buio, lo stesso bisogno di formazione, lo stesso tipo di problemi che avevamo negli anni sessanta, solo che non si orientano in una direzione precisa. Si muovono, fanno l’amore senza particolari traumi, senza tragedie ma, purtroppo, anche senza particolare intensità. Forse per questo possono dare l’impressione di essere banali. Il fatto è che si è verificato un mutamento nella loro ricerca di identità. Per noi era essenzialmente questione di impegno politico, oggi non più.


A proposito del carattere di massa dei suoi seminari, qualcuno ha scritto che la domanda analitica che li sostiene non è “chi sono io”, bensì un generico “chi siamo noi”, che riduce la portata terapeutica dell’analisi. Qual è il significato di un rapporto analitico di massa?

Non rinnego nulla del percorso dei miei seminari. In essi c’è una impostazione precisa che fa sì che ad essi possa partecipare chiunque: dal muratore ventenne, a Camon, a Zavattini, a Bellocchio; dal manuale all’intellettuale. Io non ho mai chiesto il nome degli analizzandi, molti li chiamo ancora per soprannome. Chiamo una ragazza “Campo dei fiori”, un’altra “Occhi di fuoco” o “Lunghi capelli” e così via.

Quando io ho curato e guarito la malattia, dopo che ognuno ha trovato le sue possibilità e le realizza come crede, solo allora mi capita di cadere nel rapporto privato. Seguo una persona in analisi per cinque anni, poi la incontro per strada e scopro che fa lo scultore o il regista o che ha messo su un albergo qui vicino.

Io lavoro e non so nulla delle conseguenze terapeutiche dei seminari. In analisi non voglio mai sapere i fatti privati della gente. Lavoro sui sogni e sul rapporto diretto, considero il modo di parlare, il modo di atteggiarsi, il modo di proporsi. Specialmente in un ambito collettivo, si vede subito se c’è la negazione, se c’è violenza, se c’è la domanda, se c’è il desiderio, la curiosità. È come un incontro casuale con uno sconosciuto che ti sfida al rapporto e alla conoscenza: è pazzo? È splendido? È falso?

Preferisco i rapporti collettivi perché nei rapporti privati c’è una violenza spaventosa. Si viene molto più divorati in un rapporto a due che in un rapporto con centocinquanta persone. Nell’analisi più tradizionale c’è una violenza da parte dell’analizzando alla quale però corrisponde, secondo la mia concettualizzazione, una violenza ancora maggiore che è ‹l’estraneità›, l’assenza dell’analista, dal momento che si sottrae al rapporto.


Sì, ma perché un’analisi di massa?

Io rifiuto il concetto di narcisismo di Freud. Lui dice che il bambino è narcisista e da lì viene fuori che anche l’inconscio è narcisista, chiuso e assolutamente individuale. Non è così. In quanto analista, io non mi chiudo dietro il lettino e, tanto meno, nel rapporto mi comporto come un estraneo. L’analizzante [sic! = analizzando?] ha da parte sua libertà assoluta di restare o di andare, di parlare oppure no.

Non c’è nessun contratto e non c’è nessun magnetismo: solo comunicazione. È un altro fattore della validità dell’analisi collettiva. In quattro ore — una volta erano due — io riesco a parlare direttamente con una cinquantina di persone, tutte le altre ascoltano. Sanno di essere libere e lavorano con il materiale che sentono in questa loro partecipazione a quello che sta succedendo.

La possibilità di comunicare è enorme, tale da espormi in continuazione come analista. È una comunicazione che interessa tutte le cinque-seicento persone presenti. In queste quattro ore abbiamo un rapporto analitico preciso, direi rigidamente ortodosso tra analista e analizzato. Esiste poi un rapporto extra-analitico che ha fatto sì che sin dal ’79 il rapporto analitico diventasse una ricerca collettiva con la partecipazione a feste e a dibattiti.


Qual è la componente maggioritaria fra i suoi analizzandi? C’è un linguaggio che predomina sugli altri?

Non quello analitico. Io non sono lacaniano. Per niente. E nemmeno freudiano. Se c’è un problema di linguaggio non è riguardo al fatto se un muratore è in grado o no di capire le questioni della libido, ma sorge quando si fa apposta a parlare in maniera astrusa per imbrogliare il prossimo. Per quanto mi riguarda, instaurare un rapporto di ricerca comune è tutt’altra cosa dal tenere una conferenza culturale. Al limite, se uno proprio vuole, può approfondire il linguaggio analitico studiando dei libri.

So piuttosto che ai miei seminari, oltre a psichiatri e medici, partecipano tantissimi architetti. È una presenza diventata costante. Gli architetti vorrebbero essere degli artisti e, tante volte, sono costretti ad essere artigiani. Cercano l’estro, la fantasia.

Un architetto, una donna, ha attuato la ristrutturazione interna della sede dei seminari. La dimensione di essenzialità è importante per lasciare spazio alla dimensione interiore. Dai sogni relativi a quel luogo è poi emersa una interpretazione acustica e spaziale, nell’immagine di un pianoforte a coda, a indicare il ritmo e la risonanza che si verifica nella partecipazione collettiva.


Che influenza ha avuto sulla sua formazione personale e professionale il rapporto con una moltitudine così eterogenea di persone?

La mia formazione teorica è precedente ai seminari, come dimostra il fatto che i libri li avevo già scritti prima. I seminari mi costringono a non essere soddisfatto, ad approfondire e a mettete alla prova le mie capacità di rendere un rapporto il più bello e creativo possibile, mi costringono ad un quotidiano di riuscita o fallimento, una vita quotidiana di vita o di morte. Sono esposto apertamente nella mia posizione di analista. Da undici anni trovo migliaia di “giudici” che, se faccio un banale lapsus, mi chiedono di spiegarne il perché. Devo render conto di tutto, sempre. Paradossalmente sono gli analizzandi ad essere più liberi, parlano di quello che vogliono e solo quando ne hanno voglia.

Nella pratica analitica, ogni stratificazione sociale non ha ragione di essere; allo stesso modo nella mia formazione ho imparato più dai miei rapporti personali che dallo studio. In particolare mi son servite le lunghe discussioni che a 11 anni avevo con un artigiano indoratore di candelabri e con un falegname che mi raccontava lunghe storie e mi parlava di Stalin, mentre io occhieggiavo la sua giovane figlia. Mio padre, invece, non mi insegnava nulla: faceva il suo lavoro e io guardavo. Osservavo. Facevo quello che fanno i miei analizzandi. Toccava a me interessarmi, fare congetture, chiedere. In questo modo ho utilizzato quello che c’era di buono e ho rifiutato quello che c’era di cattivo.


Lei è contro il monoteismo?

Io sono contro ogni religione. È la malattia mentale più grave di questi secoli. Amo i filosofi presocratici, Talete, Anassimandro, Anassimene. Apprezzo la loro pulizia concettuale. Il ‹daimon› che essi hanno inventato, non ha nulla di religioso: ‹è una forza vitale della materia›. Sono affascinanti. Erano riusciti a superare l’animismo, quando invece, l’indagine sulla materia portava e induce tuttora all’animismo delle piante che parlano, degli ufo, degli spiriti del bosco, e così via. Con i presocratici no, è la materia che ha una sua forza vitale; essi colgono per primi la dimensione di materia, la stessa che sarà di Giordano Bruno e di pochi altri.


Però anche Freud, a modo suo, ha inaugurato una critica radicale alla religione…

Freud ha dato la sua impostazione della natura umana in chiave narcisista e perversa, ha sviluppato una cultura in cui l’uomo non è più considerato in un rapporto. Freud ha fatto dell’inconscio un mondo chiuso, attribuendogli addirittura un senso religioso.

Ciò che si vede nel sogno, per Freud, è solo una manifestazione di un inconscio per altri versi misterioso; l’inconscio è inconoscibile: se ne può cogliere solo qualche manifestazione. Al contrario. ‹L’inconscio è il sogno. Il sogno è l’inconscio›. Non c’è nessun altro mondo ‹al di là› che alluda a qualcosa di sconosciuto e di inconoscibile. Al di là dell’immagine del sogno c’è soltanto la pulsione del rapporto tra gli uomini.

La realtà della natura umana deriva dal concetto di vitalità. Non solo il neonato, ma anche il feto ha uno stretto rapporto con la madre. È un ‹rapporto› strettamente materiale che non ha nulla di psichico. È una carica sessuale originaria data dal rapporto immediato ‹pelle-acqua›.

Da ciò deriva una precisazione del concetto di pulsione che non è l’istinto, come comunemente si crede, ma la fissazione della prima immagine interna che avviene durante la nascita. L’inconscio, perciò, inizia con la fissazione di una fantasia-ricordo. Nello stesso processo risiede l’origine della irrazionalità. Quella irrazionalità che, diceva Rubbia, è alla base di ogni scoperta sia essa matematica, fisica o scientifica.


In che rapporto sono gli psicoanalisti con la malattia mentale?

Gli psicoanalisti della S.P.I. non reggono più. Ognuno va per conto proprio. Al di là della buona volontà, non hanno una teoria di cura. Cosa lo fanno a fare il training? Lo psicoanalista viene provocato nella sua dimensione interna e non regge quel tipo di rapporto. Agli analisti occorre innanzitutto una teoria di cura che si opponga alla negatività della malattia. I freudiani tentano di riparare alla loro impossibilità di cura, derivata dalla impossibilità della loro formazione, con una astratta e rigida strutturazione di una ‹forma› di setting duale senza nessun contenuto di realtà umana, senza confronto interumano, senza dialettica. Senza fine di cura la loro azione è illecita.

C’è una legge millenaria per cui chiunque faccia un graffio a qualcun altro, commette una lesione personale, se invece un medico taglia un braccio, ne è pienamente autorizzato. È l’unica professione che è legittimata a intervenire con una lesione fisica o mentale che sia, perché lo scopo è la cura.


Si è fatto un gran parlare della sua “ingerenza” analitica nel film di Marco Bellocchio “Il diavolo in corpo”. Ai pareri entusiasti, soprattutto all’estero, si sono sommate molte critiche. Quali di queste lei ritiene di accettare?

Quelle rivoltemi dai miei analizzandi. Mi hanno accusato di aver messo a repentaglio la mia identità. “Chi te l’ha fatto fare, — mi dicono — la tua identità serve a noi!” Non c’è una ragione precisa per cui l’ho fatto. C’era in piedi un rapporto con Bellocchio. C’era insieme un fatto personale, un fatto analitico, un fatto culturale. Anche un rapporto di analisi può diventare un rapporto personale più o meno ricco. Se incontro un analizzando per strada, se sta male, se esprime una domanda, perché non dovrei rispondergli? Bellocchio era scoraggiato, la sceneggiatura del film non andava, il produttore già allora aveva la tendenza a farne un polpettone melodrammatico. Perché non avrei dovuto dargli una mano?


È stato allora che si è impegnato direttamente sul set a fianco del regista Marco Bellocchio?

Non solo a fianco del regista, ma anche degli attori, sulla sceneggiatura e sul montaggio. Ad esempio, la scena in cui il ragazzo entra dalla finestra nella stanza della ragazza, prevedeva un epilogo banale in cui lui avrebbe dovuto prenderla per mano. Ma come si fa a prenderla per mano! Il ragazzo si è arrampicato sui tetti per arrivare sin lì, trova una ragazza bella come quella…, suvvia siamo nel 2000, non può prenderla per mano: allora — se la scopa! — ho scritto sulla sceneggiatura.

Bellocchio aveva già espresso dei problemi con le donne; nei suoi precedenti film non c’era mai stato un nudo integrale.


Maruschka Detmers, la protagonista, ha avuto una parte di rilievo nel successo del film. La sua personalità e la carica sessuale sono stati al centro dei giudizi e delle polemiche. Qual è la sua opinione su di lei?

Il modo come è cresciuta la personalità della Maruschka nel corso delle riprese è sorprendente. All’inizio era un po’ goffa, bloccata, impacciata. Il suo sarebbe dovuto essere un ruolo secondario e invece la sua personalità ha fatto da supporto a tutto il film. Alla fine era diventata bellissima. Sono convinto che Godard non l’abbia mai valorizzata abbastanza.

Molte scene sono state provate qui dentro, su questo divano. A furia di provare all’improvviso scattava “le click”, come dice Maruschka. A un certo punto afferrava al volo, scattava in piedi: — Ho capito! — e se ne andava. Il giorno dopo, sul set era perfetta. Solo in questo senso ammetto di averla “plagiata”. Non c’è alcuna passività in questo. Anzi, la famosa scena della fellatio paradossalmente sta proprio ad esprimere la sessualità attiva della donna. La donna ha una sua sessualità attiva. È una iniziativa della bambina quella di attaccarsi al seno materno. È la bambina che prende il capezzolo e non la madre a imporglielo. La donna non è passiva, ma ha una sessualità completa e in questo film Maruschka lo dimostra nei termini della sua autonomia.

In questo modo si fa terapia. Anche se curare una donna può voler dire esporsi al rischio del fascino dell’oggetto del desiderio. Finché è malata non c’è problema; ma se guarisce, se diventa bella, intelligente, splendida come Maruschka? Cosa succede? Questo è un dilemma per l’analista.


Via Roma Libera, 23


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C’è una terapia degli ambienti? Come interviene l’architettura nel sogno e il sogno nella scelta di una casa? Via Roma Libera 23 a Trastevere è per molti il luogo di una analisi collettiva: la sede dei seminari dello psicoanalista Massimo Fagioli.
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“La casa dell’infanzia” di Alice Aycock. Da “Il progetto domestico”, ed. Electa.
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L’interno della sede dei seminari di Massimo Fagioli a Roma; «l’intervento su questo ambiente ha rappresentato un punto di approdo che sta a significare solidità, unità, compattezza».
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Sono una ventina, tra giovani e ragazze, ad attenderci dinanzi alla sede dove il professor Massimo Fagioli, psichiatra e psicoterapeuta, conduce i suoi seminari di analisi collettiva.

C’è un motivo preciso per cui siamo giunti qui seguendo la nostra pista di indagine sugli orientamenti del consumatore nell’edilizia. Il motivo è che esiste un incidenza molto forte tra l’architettura interna della logica, del gusto e dell’emotività di ognuno di noi e l’architettura degli ambienti.

Massimo Fagioli ha organizzato per noi questo incontro con alcuni dei suoi analizzandi. “In questo gruppo - ci spiega - ci sono persone che hanno elaborato un loro vissuto personale rispetto alla casa: alcune di loro la desiderano ancora, altre l’hanno appena trovata, altre si confrontano da tempo con lo spazio abitativo”.

Entriamo nella sala-teatro, allestita recentemente da un architetto del gruppo di analizzandi. Siamo consci dell’influenza che la topologia degli interni ha sulle dinamiche del gruppo e del singolo; è la prima volta però che ci troviamo in una realtà dove la stanza e la struttura d’arredo svolgono anche un ruolo importante nella terapia psicoanalitica, al pari dei sogni e delle interpretazioni.


Siamo qui per mettere in evidenza gli elementi dell’immaginario in rapporto all’abitazione, per indagare su come interviene il nostro vissuto nella scelta dell’abitazione ideale.
Al professor Fagioli e a voi chiediamo di spiegare che cosa è la casa per chi ci vive, una definizione in chiave analitica e personale di questo oggetto di desiderio, di questo spazio umano che tutti cerchiamo, che la società e i tempi ci rendono sempre più desiderabile in tanto in quanto è sempre più difficile da ottenere.


Prima voce femminile. La casa si inserisce sempre in una storia personale. Quello in cui vivo attualmente, è un posto che non ho scelto; per me rappresenta soltanto la soluzione di un bisogno. È una casa, per cosi dire, senza tetto né legge. Non ha alcuna comodità e non ho voglia di portarci nessuno. Sono alla ricerca di qualcosa di nuovo e trovo che sia molto difficile realizzare ciò che desidero. A parte i problemi materiali, connessi alla difficoltà stessa di trovare casa, è difficile anche perché sto cercando nell’ottica di trovare qualcosa che rispecchi quello che sento dentro, la mia trasformazione. Ciò di cui ho bisogno adesso è un ambiente che sia una conferma a tutto quello che per me è cambiato nel frattempo.


Un ambiente può servirti da conferma nel senso che lo spazio esterno interviene nella tua interiorità, è così?

Prima v.f. Certo che interviene. Una casa se non la senti, se non senti che va insieme a te, diventa una dissonanza. Vivi magari in un angolo solo della stanza perché il resto non ti piace. Questo è ciò che succede nel mio caso, perché il luogo dove vivo non ha storia, non è stato vissuto intensamente, non ha un passato e non procede insieme a me nel presente. Cerco una dimensione umana e perciò il mio sogno è una casa che non sia tutta moderna e squadrata. Non la trovo, non solo per i problemi materiali che dicevo prima, ma proprio perché difficile realizzare un impegno, una sicurezza, qualcosa che sento veramente e che va di pari passo con me stessa.


La casa come specchio, dunque?

Fagioli. No, no. Come ricerca fra spazio interno e spazio esterno. Lei ha espresso molto chiaramente la necessità di uno spazio esterno che risponda, che non sia dissonante. Lo spazio abitativo deve poggiare su qualcosa che già esiste nell’interno. Non si tratta di un riconoscimento, Caso mai, diciamo che è una rappresentazione.

Seconda v.f. Sono un architetto. In genere nella mia professione si considera lo spazio della casa come lo spazio che rappresenta l’ambizione personale di chi ci deve abitare. Io cerco di non dimenticare nella mia professione che devo produrre qualcosa finalizzata a chi la deve vivere. La mia predisposizione è al rapporto con le persone che abiteranno lo spazio che progetto. Nella realtà, però, tra l’architetto e l’utente spesso si stabilisce un rapporto lancinante, è facile che venga meno il rispetto da una parte o dall’altra. Nell’ideare un edificio, uno spazio, una struttura di arredamento, a me spetta il compito di interpretare una richiesta. Si tratta di capire qual è il ‹desiderio› dell’altro; un desiderio che, a volte, neanche il mio interlocutore sa esprimere chiaramente. Così come, al contrario, può capitare che il mio ruolo si riduca ad essere soltanto di supporto tecnico alla realizzazione di un’immagine percettiva dell’altro già completa e strutturata.


Tra le altre cose, hai progettato anche lo spazio interno di questa sala, il luogo collettivo in cui ci troviamo, che è anche luogo di analisi e di rappresentazioni. Con quali criteri hai agito?

Seconda v.f. In questa realizzazione sono stata coinvolta in maniera duplice: personalmente e professionalmente, Ero, al tempo stesso, architetto, coadiuvatore, interlocutore di Massimo e parte del gruppo che avrebbe usufruito di questo spazio collettivo. Tutte queste cose insieme hanno fatto sì che, sebbene io avessi operato con delle scelte razionali sulle soluzioni architettoniche, la realtà dell’opera realizzata assumesse poi un’immagine i cui significati più profondi ho potuto scoprire solo a distanza di tempo.

All’inizio semplicemente ero stata lasciata libera di lavorare in piena libertà, senza altri condizionamenti che i miei e con una profonda fiducia in quello che avrei potuto realizzare.

Fagioli. Riguardo questo evento abbiamo distinto alcuni momenti diversi: il primo, di presa di contatto con l’opera a lavori appena ultimati; poi, c’è stato l’emergere delle prime immagini interne e l’individuazione della somiglianza dell’intera struttura architettonica dell’arredo con un pianoforte a coda. In questa immagine era trasposta in chiave di risonanza acustica e spaziale una visione, una proposizione precisa del rapporto analitico tra me e gli analizzandi.

Terza v.f. Innanzitutto, l’intervento su questo ambiente ha rappresentato il consolidamento di dieci anni di lavoro. È un punto d’approdo che sta a significare solidità, unità, compattezza, e, in qualche modo, anche la certezza acquisita nel nostro percorso. A esprimere tutti questi contenuti è intervenuta una proposizione a livello artistico. Pian piano, nelle nostre elaborazioni sono emersi tanti elementi che hanno precisato la natura e il vissuto della nostra esperienza, elementi che hanno dimostrato il loro riscontro in rapporto stesso alla struttura. A esemplificazione di ciò, questa sala ha suggerito anche altre immagini oltre quella del pianoforte a coda, per esempio, quella di una grande barca…

Fagioli. L’interpretazione che hai accennato, quella della nave, è una immagine che viene a sottolineare la compattezza dell’insieme. In questa metafora, il capitano della nave, che sarei io, può solo coordinare l’attività della ciurma. Questa, a sua volta, non è più materia da plasmare, ma è proprio la realtà che gestisce e porta avanti la nave stessa.

La sala, con la sua struttura d’arredo, ancora una volta non è che la rappresentazione del movimento e di tutte le dinamiche che intercorrono nel rapporto fra analista e analizzando; un rapporto dove nessuno si può sostituire all’altro e condurre il gioco da solo.


Considerate questo luogo un po’ come se fosse anche casa vostra?

Prima voce maschile. Se come casa intendiamo la rappresentazione di uno spazio interno, sicuramente anche questo è uno spazio che mi appartiene. Anzi, questa è la rappresentazione più completa di uno spazio interno. Uno spazio per più di cento persone alla volta è uno spazio interno, perché anche dentro di noi possiamo accogliere cento persone alla volta.

Per la stessa ragione però le rappresentazioni del pianoforte e della nave sono possibili solo qui. Mi piacerebbe che anche casa mia fosse così. Ma naturalmente qui è tutta un’altra cosa, c’è l’ambiente adatto e l’occasione di elaborare. Quindi, per quanto la mia situazione abitativa si possa già definire buona, non posso non considerare questo posto come se fosse anche casa mia. Io in realtà non ho mai vissuto una reale condizione di bisogno né di particolare desiderio rispetto alla casa. Adesso, invece, che abito da solo, ho cominciato a interagire con la mia casa. Ho attuato una ristrutturazione abbastanza radicale, anche con l’aiuto di alcuni miei compagni, e così ho potuto scoprire come perfino i muri e i termosifoni, che prima non avevano per me alcun significato di riferimento, si sono rivelati altrettante occasioni di interazione, di elaborazione del mio vissuto interno rispetto a un nuovo modo di abitare.


Nell’urbanistica e soprattutto nel centro storico di Roma c’è una coralità di epoche diverse che contraddistingue l’abitare in questa città; in che misura tale coralità influisce sul modo di vivere il presente?

Quarta v.f. Io abitavo in una casa nel centro storico, ora invece vivo in uno stabile situato in un’altra zona. Anche se è sempre una casa che proviene dal lavoro umano e dallo sviluppo stesso della città, ho sofferto molto di questo passaggio.

C’è una storia dell’uomo a cui ci si sente affini; la si ama, perché corrisponde a una dimensione interna e si prova piacere a legare in qualche modo la propria storia personale con quella di tanti altri che hanno vissuto gli stessi luoghi in tempi così diversi.

Ad ogni modo, ho cercato di rendere la nuova casa corrispondente a quelle che sono le mie trasformazioni, le mie esigenze, il mio lavoro. Ma, se la casa in cui vivo è tuttora legata al bisogno, il mio sogno resta ancora quello di tornare ad abitare nel centro storico di Roma.

Quinta v.f. Prima si è parlato del luogo come di un effetto di acquisizione di sicurezza. Per quanto riguarda questa sede di via Roma Libera, però, io ritengo che essa rappresenti una realtà che non è certo legata a una ricerca di sicurezza. Il bisogno di sicurezza è in relazione a una contingenza materiale negativa. Solo in questo caso si ha bisogno di una realtà materiale che ti permetta di non morire e di lottare per la sopravvivenza.

Noi parliamo invece di una realtà acquisita, non cerchiamo la certezza, perché il nostro percorso, la nostra storia è già di per sé un dato di fatto. Oggi abbiamo la possibilità di andare oltre nella misura in cui le nostre esigenze sono cambiate; perché la nostra stessa esperienza è andata oltre. Il nostro rapporto collettivo fonda e sviluppa un discorso di ricerca, di dialettica, non il bisogno di una sicurezza.

In questo sviluppo anche il rapporto con l’intorno architettonico produce i suoi effetti. Esiste un condizionamento della struttura, ma la realtà è sempre qualcosa che ti corrisponde, che interagisce con la tua libertà interna per fondersi nella stessa realtà.


Viene voglia di azzardare una associazione legata a questo luogo. Il pavimento rosso di questa stanza, ad esempio, ricorda tanto l’alchimia del vetro rosso del film “Cuore di vetro” di Herzog… Un film che suggerisce di rispondere alla superstizione con la ricerca della conoscenza.

Seconda v.m. È una interpretazione sorprendente, perché in effetti abbiamo parlato moltissimo di questo film e dei suoi contenuti. Proprio da questo film noi abbiamo tratto ulteriori conferme sul fatto che c’è una corrispondenza fra le cose, gli oggetti materiali, una rappresentazione e il mondo interno di ognuno di noi. Anche nella scena finale di “Cuore di vetro”, infatti, c’è una barca che salpa verso l’infinito come citazione di un Ulisse che varca le colonne d’Ercole e come metafora più generale della conoscenza. Questi temi legati al film hanno avuto risonanza per ben due anni nelle nostre elaborazioni collettive.


Tornando al vissuto della casa, come pensate che influisca l’interazione familiare e i rapporti tra chi abita la casa sulla disposizione delle stanze e la loro funzione?

Sesta v.f. Io che vivo in casa con la famiglia, non sento nessuno spazio come mio, neanche la mia stanza. Non c’è niente che possa sostenere una comunicazione, neanche la codificazione funzionale delle stanze. La cucina, anzi, è diventato il luogo della non comunicazione. C’è una situazione di separati in casa, perché i miei genitori sono separati praticamente da sempre. È come se avessero eretto ulteriori pareti invisibili negli ambienti.

Terza v.m. Il ruolo di demarcazione delle pareti riguarda anche la mia esperienza. Non so se involontariamente ho riprodotto nella disposizione della mia casa le stesse condizioni che avevo vissuto in quella dei miei genitori. Certamente, per quanto riguarda alcuni spazi come la cucina, sono riuscito a dare delle soluzioni assolutamente originali rispetto al passato. L’ho interpretata a modo mio, anche nella struttura perimetrale, buttando giù una parete e creando un ambiente unico che, insieme alla cucina comprende il soggiorno. È una cosa che ho sentito di dover fare come adeguamento a una mia necessità.

Credo di poter dire che l’elaborazione che sviluppo qui è in relazione al modo in cui poi mi vivo la casa in cui abito ormai da due anni. Sento però che ci sono ancora molte cose da scoprire. Sarà forse perché nei miei sogni non ricorrono ancora immagini legate alla casa attuale ma a quella dei miei quattordici anni. Ci deve essere una relazione che unisce questi due luoghi dove ho vissuto. Io penso che l’idea della casa esista già dentro di noi; spetta poi all’architetto e al muratore aiutarti a tirarla fuori, purché alla base ci sia un rapporto con loro.

Quando ho comprato la mia casa, intendevo già ristrutturarla. Il posto mi piaceva, ma non come era fatta. Oggi, a lavori ultimati, mi accorgo che sono emersi tanti aspetti a cui prima non avevamo mai pensato, né io, né la persona che l’aveva disegnata né quella che l’ha realizzata. Alla fine ti accorgi che il risultato non poteva essere che quello, è un vestito che ti sta a pennello. È incredibile come, abitando un posto, ci si renda conto della non casualità di tante cose.


Non pensate che una casa con le pareti interne “mobili” possa rispondere meglio al mutare delle vostre esigenze?

Seconda v.f. A casa mia ho improntato le strutture di arredo in modo abbastanza flessibile, A seconda dei periodi legati alla mia situazione personale, mi capita di spostare tutti i mobili, di cambiare ogni cosa dal suo posto, talvolta in maniera confusa, talvolta soddisfacente. Dipende appunto dalla situazione del momento. Certo che ogni modificazione dell’ambiente coincide con una mia modificazione interna.

Uno spazio libero, giocato sulle interpareti, per esempio, può essere molto utile e adattabile alle esigenze personali, anche se poi, le stesse esigenze possono trovare mille altre soluzioni.


Si può considerare, altrimenti, la casa alla stregua di un teatro, un proscenio per il protagonismo di chi vi abita?

Quarta v.m. La casa come rappresentazione si può avvicinare all’idea di teatro, senza però, per questo, scadere in un eccesso di esibizionismo che secondo me è negativo, perché tende a dare delle immagini e delle rappresentazioni che non corrispondono ai contenuti.


Come si concilia, allora, la presenza dell’immagine televisiva nell’equilibrio contenuto-immagine di una abitazione, non si crea forse un surplus, uno squilibrio dato dalla preponderanza di una comunicazione non interpersonale?

Quarta v.f. In effetti, oggi esiste uno squilibrio generalizzato verso l’esterno che accentua la ricerca di uno spazio interno ancora più grande. La nostra è una ricerca che poggia su modi di comunicazione completamente diversi: noi riteniamo importante un sentire diretto; sono importanti le dinamiche che si sviluppano all’interno di un rapporto. La stessa conoscenza nasce da un modo di rapportarsi agli altri.

L’esperienza, la storia e il sentirsi sono importanti. Non l’immagine dei media, ma l’interazione dell’uomo con l’uomo.

Fagioli. Da ragazzo abitavo in una casa enormemente più grande di quella in cui vivo ora in pieno centro storico romano che è di tre stanze, la più grande delle quali è di ventidue metri quadri. Ma io ho idea di essere più aperto all’esterno ora che non prima. Le mie finestre si affacciano dal terzo piano sulla vita della strada. Anche d’inverno entrano i rumori, le voci del quartiere; ascolto i discorsi della gente che sta giù. Per il resto dell’anno poi, da maggio fino a novembre, le mie finestre rimangono sempre aperte, ventiquattrore su ventiquattro. Questo significa essenzialmente che l’equilibrio interno-esterno non è dato dalle dimensioni della casa, né dalla disposizione delle pareti interne, ma da una disponibilità alla comunicazione vera tra spazio interno e spazio esterno. Per questo scopo non occorre la telematica, anche il lusso può essere superfluo. Spesso un cambiamento è un movimento d’inganno se non va di pari passo con il mutare della persona.

G.P. e S.M.

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