2014·11·25 - Stampa • Anello·L • Una lapide a Angkor dimostra che lo zero è nato in Oriente

Una lapide a Angkor dimostra che lo zero è nato in Oriente

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Riscoperta da uno studioso americano dopo che era andata perduta al tempo di Pol Pot, toglie agli arabi la paternità del sistema decimale
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di Laura Anello
La Stampa — 25/11/2014

Secondo il matematico russo Tobias Dantzig, l’autore de ‹Il numero, il linguaggio della scienza›, «nella storia della cultura, la scoperta dello zero si ergerà sempre come una delle più grandi conquiste individuali del genere umano». Un libro che, scriveva Einstein, «è il più interessante sull’evoluzione della matematica che mi sia mai capitato tra le mani». Ecco perché la scoperta — o forse meglio dire la riscoperta — della prima iscrizione al mondo che riporta il segno 0 non è questione che attenga soltanto agli specialisti.

Su quel cerchietto usato in senso posizionale (cioè in grado di determinare il significato di un numero a seconda della sua posizione, per esempio 605, 650, 6500, 6050, 6005) è costruito tutto il nostro sistema decimale. Quello che ci consente di aggiungerlo in coda a una cifra e moltiplicarla per dieci, quello che ci ha permesso di affrancarci dal sistema romano, e poi medievale, che metteva in fila le lettere dell’alfabeto. Ma anche quello che ha dato nuova identità filosofica e concettuale allo 0, lontana dall’idea di «nulla» babilonese e greco.

Finora si è creduto che la prima testimonianza dello 0 «posizionale» fosse custodita in India, nel tempio indù Chatur-bhuja (dio a quattro braccia) della città di Gwalior, a sud di Delhi. Un’iscrizione datata intorno al 900 dopo Cristo. Adesso invece il primo 0 del mondo si è palesato in Cambogia, ed è di due secoli precedente a quello di Gwalior, precisamente del 683. A scoprire l’iscrizione K-127, citata da alcuni testi a cavallo tra Ottocento e Novecento ma poi scomparsa nel nulla, è stato il matematico e divulgatore scientifico americano di origine ebraica Amir Aczel, che si è messo sulle tracce di testimonianze sommerse per arrivare nella città di Angkor, l’antica capitale del regno Khmer, nel laboratorio di restauro dove l’Università di Palermo guida un progetto internazionale chiamato Trinacria che ha consentito di salvare oltre cento opere.

E tra queste l’iscrizione con il numero d’inventario K-127, originariamente collocata sulla porta del tempio pre-angkoriano di Sambor, vicino al fiume Mekong. Un’iscrizione rituale di 21 righe in lingua Kmher [sic!] antica che alla quarta riga riporta il numero 605. «L’era Chaka ha raggiunto 605 il quinto giorno della luna calante», c’è scritto. «Sappiamo che l’era Chaka era iniziata nel 78 dopo Cristo, quindi l’anno di inserimento nel nostro calendario si ricava dall’addizione 605 + 78, cioè 683. Il primo zero che abbiamo mai trovato», chiosa Aczel. E la questione va ben oltre il semplice primato tra India e Cambogia. Perché è la pietra di suggello sul fatto che lo 0 come base del sistema decimale (perché altri sistemi sono molto più antichi e risalgono indietro nel tempo fino ai babilonesi) sia stato scoperto in Oriente, e non in Occidente, e che gli arabi lo abbiano portato sì da una parte all’altra del mondo: ma da lì a qui, e non il contrario. Affermazione oggi consolidata nella comunità scientifica, ma che agli inizi del 1900 era rivoluzionaria quasi quanto la rivoluzione galileiana.

L’idea diffusa era che lo avessero inventato gli europei. Il matematico britannico George K. Kaye sparava a zero contro l’ipotesi della primazia indiana, contestando allo 0 del tempio di Gwalior di trovarsi in una zona che nel IX secolo dopo Cristo era un califfato arabo. Chi poteva sostenere che non lo avessero portato lì commercianti arabi, dall’Occidente culla di ogni sapere? Fu proprio l’iscrizione cambogiana del tempio di Sambor, la K-127 ora ritrovata, a demolire la visione «occidentocentrica».

L’aveva rinvenuta tra le rovine del tempio del VII secolo, nel 1891, lo studioso francese Adhemard Leclère. Nel 1931 l’archeologo francese Georges Coedes l’aveva tradotta e l’aveva datata a un tempo in cui l’impero arabo non si era ancora esteso fino alla Cambogia. Se quello 0 c’era, scolpito sulla pietra, significava che era stato scoperto lì.

Ma il primato cambogiano era stato dimenticato, così come l’iscrizione era scomparsa nel buco nero dei massacri di Pol Pot, con il suo 1 milione e 700 mila vittime (quasi un terzo della popolazione del Paese) e con le sue 10 mila opere d’arte distrutte. Nessuno ne aveva più memoria, e lo 0 del tempio indiano di Gwalior continuava a essere considerato dalla letteratura scientifica internazionale come il primo 0 «posizionale» del mondo.

Fino a quando quell’iscrizione non è ricomparsa nei laboratori di Angkor. «Ci era stata segnalata dalle autorità cambogiane come un’opera di particolare rilievo — racconta Giovanni Rizzo dell’Ateneo di Palermo — ma si era persa memoria della sua reale importanza, fino a quando il ricercatore dell’Università di Boston Aczel non è arrivato a riscoprirla». Vista da Aczel, una vera caccia al tesoro. «Sono partito grazie all’appoggio della Sloan Foundation di New York, nonostante tanti testimoni mi raccontassero che la distruzione dei Khmer Rossi era stata troppo radicale per ritenere che esistesse ancora. Ho deciso di fare appello al governo cambogiano, finché il direttore generale del ministero della Cultura e delle Arti Hab Touch mi ha detto che era stata spostata in un compound vicino alla città di Siem Reap, pure saccheggiata alla fine del 1990 in una recrudescenza della violenza. Ho guidato fin lì, ho trovato la struttura chiamata Angkor Conservation, mi sono messo a cercare tra migliaia e migliaia di manufatti archeologici collocati a terra in grandi capannoni. Finché, era un tardo pomeriggio, l’ho trovata. Un’emozione incredibile».

La nascita del nulla


L’origine della parola è chiara: per gli indiani era ‹sunya› (vuoto), termine che per i commercianti arabi che lo portarono in Europa nel Medioevo diventò ‹sifr›. Si diffuse attraverso il Liber Abaci di Leonardo Fibonacci, datato 1202: fu lui a tradurre ‹sifr› in ‹zephirus›: da qui si ebbe zefiro, come il vento leggero, quasi da nulla, e poi zero, che compare in un testo stampato a Firenze nel 1491, l’Aritmetica Opusculum. Fu Fibonacci a far conoscere la numerazione posizionale in Europa, parlando di nove cifre indiane e, appunto, del segno zero. Si chiamarono, e si chiamano, numeri arabi, per distinguerli da quelli romani. Altri sistemi risalgono a centinaia di anni prima. I Babilonesi usavano un segno speciale per separare le cifre: inizialmente uno spazio vuoto, poi attorno al 300 avanti Cristo due cunei pendenti per indicare un’assenza. «Neppure i greci, i più grandi matematici della storia, concepirono lo zero come numero: i loro numeri partivano da due, dato che per loro il numero era molteplicità; perciò uno non era un numero e zero men che meno», spiega Giovanni Greco dell’Università di Bologna. Il sistema romano, che rimase in uso in Europa fino al XIII secolo, utilizzava invece lettere latine come sequenze di simboli per indicare le quantità (M per mille, D per 500, C per 100, L 50, X per 10). Tra il 300 e il 900 dopo Cristo, dall’altra parte del mondo, le popolazioni Maya intuirono le caratteristiche essenziali dello zero, anticipando di anni l’uso moderno: il loro sistema era vigesimale, andava cioè su base venti e i numeri venivano letti dall’alto in basso. Ma fu intorno al 600 dopo Cristo che in Oriente lo zero fu concepito in modo maturo, come dimostrano le iscrizioni cambogiane e indiane. Un grande poeta indiano, Biharilal, alludendo a una donna molto bella, fece un paragone fra il punto e lo zero: «Il punto sulla sua fronte accresce la sua bellezza di dieci volte, proprio come un punto zero accresce un numero di dieci volte». Era l’inizio della matematica moderna. [L.A.]
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