2015·07·28 - Repubblica • Odifreddi·P • La macchina perfetta è nascosta negli animali

La macchina perfetta è nascosta negli animali

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di Piergiorgio Odifreddi
Repubblica — 28/07/2015

L’umanesimo è un microscopio che si focalizza sull’uomo per osservarlo e conoscerlo da vicino. Paradossalmente, però, è proprio la sua stessa natura a condannare l’umanesimo a una visione miope e angusta, oltre che partigiana, del suo oggetto di interesse e di studio. Nei miti della religione, nei sistemi della filosofia e nei racconti della letteratura l’uomo viene infatti immaginato, pensato e descritto come se fosse il massimo, o addirittura l’unico, essere degno di interesse nell’universo mondo.

La scienza, al contrario, osserva la Natura attraverso un grandangolo, e abbraccia con uno sguardo a tutto campo l’intera varietà dell’esistente. Dal punto di vista della realtà biologica l’uomo non è ciò che crede, si illude o si immagina di essere, bensì semplicemente ciò che è. Ovvero, una delle innumerevoli specie animali, esistenti o esistite: con le proprie specificità, appunto, ma anche, e soprattutto, con le proprie genericità.

È solo confrontando la specie umana con le altre specie animali che si possono mettere in prospettiva e comprendere la posizione e il ruolo dell’uomo nella Natura. Ed è per questo che lo scienziato può domandare all’umanista, parafrasando Kipling: in fondo, cosa conosce dell’uomo, chi conosce solo l’uomo? Questa domanda potrebbe fungere da strillo editoriale per lo straordinario libro di Mark Denny e Alan McFadzean L’ingegneria degli animali che inquadra molte delle caratteristiche della nostra specie come particolari soluzioni a generali problemi di ingegneria, affrontati e risolti a modo loro dalle altre specie.

Per esemplificare, prendiamo il capitolo sulla vista intitolato "Vedere la luce". È noto che l’occhio costituisce uno dei ronzini da battaglia dei creazionisti, i quali sostengono che la sua perfetta struttura è prova di un intervento diretto di Dio nella creazione. L’affermazione non è ovviamente verificabile, ma se fosse vera questi oculati interventi divini avrebbero dovuto essere parecchi: nel corso della storia biologica l’occhio si è infatti evoluto molte volte. Ad esempio, noi abbiamo due occhi uguali e semplici, composti da una sola lente, ma il ragno saltatore ne ha otto, mentre le formiche, le mosche e le libellule hanno occhi composti da centinaia o migliaia di fotorecettori muniti di lenti indipendenti, chiamati "ommatidi".

Gli occhi di tutti i vertebrati, noi compresi, si sono evoluti da un’unica comune origine pelagica. Essi sono infatti sensibili solo alle lunghezze d’onda di una piccola finestra dello spettro elettromagnetico: quella tra l’infrarosso e l’ultravioletto, che prende appunto l’antropomorfico nome di "luce visibile". Tutte le altre lunghezze d’onda vengono attenuate nell’acqua, per assorbimento e diffusione. Il nostro occhio si è dunque sviluppato da un prototipo selezionato per la visione acquatica, mentre se fosse stato creato appositamente per la visione terrestre avrebbe potuto estendersi anche ad altre lunghezze d’onda non attenuate dall’aria: ad esempio, all’ultravioletto, che infatti gli occhi di molti uccelli e insetti possono vedere.

In ogni caso, come progetto ingegneristico il nostro occhio è tutt’altro che perfetto, e presenta un grave errore di progettazione. I coni e i bastoncelli, che ricevono gli stimoli luminosi a un estremo e li trasmettono al cervello dall’altro estremo, sono infatti posizionati al contrario di come dovrebbero essere: il lato fotorecettore si trova sul retro della retina, e quello trasmettitore sul davanti! Questo obbliga i vari fili di trasmissione a convergere in un nervo ottico, che deve attraversare la retina per andare al cervello. In corrispondenza del buco di passaggio si genera un punto cieco in ciascun occhio, che la mente rimuove riempendolo con un’illusione ottica. Il Dio dei cefalopodi (calamari, seppie, polpi e moscardini) è stato più oculato di quello dei vertebrati e non ha commesso con loro questo errore.

La vista costituisce il senso di rilevazione dell’ambiente più importante per l’uomo, ma altri animali si affidano maggiormente ad altri sensi. Ad esempio, i capitoli "Il verso giusto" e "Il sonar animale" del libro descrivono rispettivamente gli usi passivi e attivi dell’udito per rilevare le onde sonore nell’aria, nell’acqua e nella terra.

I mammiferi hanno orecchie di varia posizione e foggia. Le nostre stanno ai lati della testa, come gli occhi degli erbivori e di molti uccelli, e hanno lobi fissi e piatti, perché ci affidiamo all’udito solo per informazioni generiche a tutto raggio. Le orecchie dei predatori o dei predati, come i gatti o le lepri, stanno invece di fronte, come i nostri occhi, e sono mobili e direzionali, per permettere una localizzazione del suono più raffinata e precisa. Forma, orientamento e disposizione dipendono poi dalle particolari esigenze delle varie specie.

Molti animali non si limitano a ricevere passivamente i suoni dall’ambiente esterno, ma ne emettono attivamente di propri per analizzarne gli echi e ricavarne precise informazioni di posizione sugli ostacoli o le prede circostanti. Lo fanno uccelli come il grande guaciaro notturno dell’America del Sud e la minuscola salangana delle grotte del Sud Asiatico e dell’Oceania. Lo fanno i delfini dal naso a bottiglia e le balene, che sfruttano la persistenza nell’acqua dei suoni bassi per comunicare a distanze di centinaia di chilometri. E lo fanno centinaia di specie di pipistrelli, raggiungendo precisioni superiori non solo a tutti gli altri ecolocalizzatori animali, ma anche ai migliori strumenti tecnologici umani.

Immaginarsi come "vedano" il mondo questi animali è già tanto difficile, che un filosofo sensato come Thomas Nagel scrisse nel 1974 un famoso saggio intitolato appunto Come ci sente a essere un pipistrello? Ma diventa semplicemente impossibile quando si passa agli animali che usano il naso per costruirsi mappe olfattive del tipo descritto da Denny e McFadzean nel capitolo "Un universo chimico". Non c’è bisogno di andare lontano per trovare degli esempi, visto che ne abbiamo negli animali da compagnia come cani e gatti.

A orientarsi "a naso" sono comunque in molti: primi fra tutti i batteri, che sono in grado di avvertire i gradienti di concentrazione delle sostanze nutritive e seguirne le tracce. Poiché per odorare le molecole bisogna scioglierle, l’olfatto richiede umidità: per questo il naso dei vertebrati che respirano nell’aria produce muco e cola. I pesci nell’acqua sono più favoriti, e spesso sentono gli odori direttamente attraverso la pelle: i salmoni memorizzano l’odore del fiume da cui provengono e lo ritrovano a distanza di anni. Ma qui entriamo nel capitolo "L’epica andata e ritorno", che racconta straordinarie storie di ordinaria vita animale al cui confronto le memorie dei grandi viaggiatori umani impallidiscono. I satellitari degli animali impiegano le tecnologie più svariate: possono seguire istruzioni genetiche, improvvisare navigando a vista, orientarsi su punti di riferimento terrestri o celesti, battere piste olfattive, fare calcoli complessi. E dimostrare che L’ingegneria degli animali non ha nulla da invidiare alla nostra.

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* IL LIBRO
L’ingegneria degli animali di M.Denny e A. Mc Fadzean (Adelphi, pagg. 408, euro 36)
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