2015·10·12 - BabylonPost • Drummond·EB • Il ritorno del Nulla

Il ritorno del Nulla

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Non è affatto necessaria la filosofia di Heidegger per comprendere la Shoah e il mondo moderno. Occorrono piuttosto idee nuove sull’essere umano, per realizzare una Storia diversa
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di Edoardo B. Drummond


Il 19 marzo di quest’anno, in occasione di un dibattito su Heidegger e gli Ebrei, fu Donatella Di Cesare, nota studiosa di filosofia e sostenitrice delle speculazioni heideggeriane, ad affermare che la “soluzione finale” messa in atto dai nazisti altro non era che una “traduzione nel Nulla” di quello che essi ritenevano un nemico interno, il popolo ebraico [1]. In precedenza, l’8 febbraio, in un articolo sul “Corriere della Sera”, s’era invece più concretamente espressa in termini di «fabbricazione dei cadaveri» [2].

Il 1° agosto scorso, la stessa Donatella Di Cesare, nel corso di un dibattito a Civitanova Marche, si è spinta oltre affermando: «Perché Heidegger ha avuto tanti allievi ebrei? Sicuramente c’è una grande affinità tra il pensiero di Heidegger e il pensiero ebraico: penso al concetto del Nulla, penso… potrei fare molti altri esempi» [3].

Meno di un mese dopo, dalle colonne di “Repubblica”, Paolo Zellini le faceva eco dichiarando: «La mistica ebraica, incentrata sull’idea di un nulla nell’intimo di ogni essere, offre analoghi spunti di riflessione» [4].

Curiosamente, già in un articolo pubblicato a novembre del 2014, avevamo messo in evidenza come l’idea del Nulla si definisca nella Storia in seguito «a una concezione non più ciclica, ma lineare del tempo», ovvero quando si diffonde e finisce per prevalere il concetto di una “creazione” del mondo, e questo avviene con il passaggio dal politeismo al monoteismo [5]. Gli dei “pagani”, infatti, non erano creatori del mondo, ma si limitavano a governarlo, ciascuno per la propria area di competenza; essi stessi erano stati generati, e rientravano quindi in una sorta di “ciclo naturale”.

Il Dio unico, invece, di necessità maschile — era infatti in origine Yahweh Seba’ot, il dio degli eserciti — o forse divenuto nel tempo asessuato, non ha questa capacità di generare, e diviene “creatore”. In realtà, il completamento della transizione verso la concezione monoteista richiederà svariati secoli, e a nostra conoscenza il Nulla neanche appare nelle Scritture. Il racconto della creazione riportato nella Genesi, ad esempio, presuppone uno stato iniziale informe, in cui predominavano le tenebre e l’acqua, e si svolge poi in termini di successive separazioni, tra la luce (il giorno) e le tenebre (la notte), e così via. Esso assume dunque, in analogia a tante altre mitologie antiche sull’origine del mondo, la preesistenza di uno stato iniziale indifferenziato e caotico, piuttosto che del Nulla.

Com’è noto, intorno al 1200, lo “zero”, elaborato secoli addietro da matematici cinesi e indiani, passando per i sapienti arabi viene importato in Europa da Leonardo Pisano, detto il Fibonacci [6]. Il Medioevo si avvia ormai alla sua conclusione, le nuove conoscenze danno impulso a ricerche che scardineranno le antiche fideistiche certezze, nonché all’introduzione di nuove tecniche produttive che modificheranno l’assetto della società. Mentre gli alchimisti nel segreto dei loro laboratori indagano le trasformazioni della materia, i mistici riprendono le speculazioni neoplatoniche e sondano le profondità dello Spirito. Si afferma la “teologia negativa”, secondo la quale Dio (come lo Spirito) non può esser definito per ciò che è ma unicamente per ciò che non è; per avvicinarglisi occorre dunque eliminare tutto ciò che è definito e materiale, ‹in primis› il corpo e le passioni. Al Nulla precedente alla creazione viene dunque logicamente a corrispondere un Nulla interno all’uomo, Nulla che costituirebbe la sua parte divina, imprigionata dentro il corpo materiale.

Parallelamente, nel XII secolo si sviluppa anche il misticismo ebraico con la Cabala, ma è solo con la corrente rabbinica del Chassidismo, nel XVIII, che si afferma «l’idea di un nulla nell’intimo di ogni essere» (Zellini). Può essere interessante notare che già un secolo prima, nel 1643, Evangelista Torricelli aveva dimostrato scientificamente, col suo barometro, l’esistenza in natura del vuoto. A nostro avviso, dunque, attribuire genericamente al “pensiero ebraico” la paternità del concetto del Nulla può essere fuorviante, se non addirittura falso, in quanto se ne decontestualizza l’idea, che ha invece una ben precisa origine storica.

Perché allora — ci chiediamo — rispolverare adesso, nel 2015, quest’antiquata idea post-illuminista di un Nulla originario nel profondo (o nello sprofondo, l’Abgrund heideggeriano) dell’animo umano? Dobbiamo ricordare il “legno storto” di Kant, l’inconoscibile “das Unbewußte” di Schelling, l’inconscio perverso di Freud? Perché soprattutto ricorrere a questa idea per stabilire una “comunanza” di pensiero tra Heidegger e gli ebrei, tra la vittima e il suo persecutore? Come si può dire che senza Heidegger non si può comprendere la Shoah? [7]

Non sarà che l’idea del Nulla viene riproposta e adoperata per evitare che qualcuno possa pensare e parlare di “annullamento”? Il Nulla infatti — possiamo argomentare — non esiste in natura, né costituisce una realtà originaria e ineluttabile all’interno dell’essere umano. Questi ha però la possibilità, in determinate condizioni patologiche e non innate, di “fare” delirando il Nulla mediante la “pulsione di annullamento” [8]. E ciò avviene in effetti proprio quando il pensiero “perde” il corpo e la vitalità che gli è propria, e diviene astratto e anaffettivo (come pretendevano i mistici). Non sarà proprio questo che è accaduto a Heidegger come ai nazisti, i quali mettendo in atto la “soluzione finale”, vale a dire con l’ausilio della tecnica e di una pianificazione meticolosa e razionalissima, intendevano eliminare, far scomparire il “popolo ebraico”? Quello che nel loro delirio percepivano, in quanto “altro” e “diverso”, come la più mortale delle minacce?

Forse la poderosa corazzata heideggeriana, per quanto si sforzino di tenerla a galla i numerosi fuochisti e meccanici e manovratori, comincia già a mostrare un difetto irreparabile nella sua costruzione, e finirà presto per colare a picco da sola.


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NOTE
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[1] Il dibattito si è tenuto a Roma, presso la sede dell’Istituto della Enciclopedia Italiana (Treccani). Cfr. la registrazione video, 1:58 ca.

[2]Heidegger: «Gli ebrei si sono autoannientati»›, “Corriere della Sera” 8/2/2015 (qui).

[3] A Civitanova Marche, il 1° agosto 2015, nel contesto del “Futura Festival”; l’incontro (cui partecipavano Donatella Di Cesare e Diego Fusaro) aveva per titolo: Bentornato Heidegger! Oltre i “Quaderni neri”. Il passaggio citato si trova nella registrazione video a 1:01 ca.

[4] P. Zellini, ‹La mistica della fisica›, “Repubblica” 30/8/2015 (qui).

[5]Il vuoto, il nulla teorico, poi quel silenzio della nascita umana›, in “BabylonPost”, 6/11/2014; su BabylonPost, oppure in Archivi). [Il sito del magazine “Babylon Post” non è più accessibile; N.d.R.]

[6] E.B. Drummond, ‹Uguale e diverso. Dai calcoli degli antichi alla scienza della realtà umana›, in “BabylonPost”, 5/1/2015; (su BabylonPost, oppure in Archivi). [Il sito del magazine “Babylon Post” non è più accessibile; N.d.R.]

[7] Sono parole che costituiscono parte della domanda posta da Gianfranco De Simone al termine dell’incontro del 19 marzo citato sopra.

[8] La pulsione di annullamento è stata teorizzata dallo psichiatra Massimo Fagioli in ‹Istinto di morte e conoscenza› (1972), L’Asino d’oro edizioni, 2010.


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COMMENTI
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Riportiamo anche i commenti postati da alcuni lettori per l’interessante dibattito in essi sviluppato sulle origini del monoteismo, sull’evoluzione storica dell’ebraismo e sulle implicazioni culturali della Shoah.


13/10/2015 — Fabio della Pergola

Buon articolo. Finalmente si chiariscono alcuni punti:

1) Non è nel testo biblico che si parla di creazione dal nulla. Che, viene detto, attiene al monoteismo. Correttamente si dice che le Scritture parlano di progressive separazioni. Perché dunque parlare di monoteismo e di Yahwè come “dio unico” se la “creazione dal nulla” è appena stata esclusa dal testo biblico? La conclusione più coerente è che nella Bibbia non ci sia alcun monoteismo, ma che esso derivi da un’interpretazione successiva (giudaico-ellenistica?).

2) Non è nella mistica ebraica — casomai solo in una sua corrente più tarda e marginale e ampiamente influenzata dalla mistica cristiana, il chassidismo — che si pensa ad “un nulla nell’intimo di ogni essere” (la frase di Zellini così com’è è del tutto inaccettabile: fa di un particolare una verità generale. Essa deriva probabilmente da una lettura di Jachid e Jechidà di Isaac B. Singer, l’autore di Yentl)

3) È falso mettere sullo stesso piano pensiero ebraico e pensiero cristiano che elabora l’idea di dio come nulla di origine neoplatonica e propone la necessità di fare il nulla in sé per trovarvi Dio (Meister Eckhart). Il libro della Di Cesare stabilisce un parallelo solo — sembrerebbe — sul tema della creazione (“dove Ayin volge in Anì” p.219: dove il Nulla diventa l’Essere). Ma il libro può essere utile per chiarire che l’antisemitismo di Heidegger non fu eccezionale, ma il logico punto d’arrivo della filosofia occidentale: se la realtà umana è “storta” e malata, per trovare un “bello e buono”… va annullata. Questo punto stabilisce non una prossimità ma, casomai, la radicale diversità del pensiero ebraico da quello cristiano. Quindi pensare che esisteva una diversità ebraica non era un delirio? Forse no; diventava un delirio se la diversità (culturale) era portata a livello fisico, biologico o razziale. Si può spiegare la Shoah senza Heidegger? Sì, utilizzando l’idea di pulsione di annullamento (Fagioli), ma solo se si stabilisce che “qualcosa” andava annullato e se ne chiarisce il perché. Molto è ancora da chiarire e finché non si chiarisce a fondo la “diversità” ebraica rispetto alla cultura dominante sarà molto difficile arrivarci.


10/11/2015 — Ewan McDirmmon

Abbiamo trovato molto interessante l’articolo, e concordiamo in linea di massima con quanto afferma Fabio della Pergola nel suo commento, che ci pare estremamente puntuale; spinti dal grande interesse dell’argomento, segnaliamo un paio di punti che meriterebbero a nostro avviso un ulteriore approfondimento.

1. Nella Bibbia non c’è alcun monoteismo. Vero, del resto anche nell’articolo è specificato che la transizione “richiederà svariati secoli”. Diversi autori descrivono infatti una fase transitoria di “enoteismo”: un solo dio per un popolo, una sorta di “monoteismo debole” in cui non si afferma l’esistenza di un dio unico in assoluto (in senso ontologico), ma soltanto un “patto di fedeltà” a un solo dio (in cambio di terra e di prosperità), un dio che si riveli più potente di quelli dei popoli vicini, persino nelle sorti avverse del “suo” popolo. Di più, potremmo osservare che il passaggio a un vero monoteismo non è stato completato neppure al giorno d’oggi: ne sono prova i santi del cattolicesimo, gli “spiriti” (jinn) nell’islamismo, le schiere di angeli ed arcangeli in tutti i monoteismi, ma soprattutto l’ubiquità del “diavolo” (anche gli ultimi pontefici hanno insistito sul suo carattere di “persona”), una figura necessaria per sostenere l’eterna “lotta tra bene e male”, e che trova un suo corrispettivo in un “male” costitutivamente interno all’uomo (il peccato originale, ecc.). Ci sembra interessante un’affermazione dello storico Mario Liverani (Oltre la Bibbia, 2003): «L’emergere del monoteismo non unifica le varie personalità divine, ma le annulla: rinuncia alle loro caratterizzazioni distintive per puntare su una caratterizzazione globale del divino che non può che essere di carattere etico. Siamo di fronte ad una vera e propria svolta». Lo stesso Liverani documenta l’antica esistenza, accanto a Yahweh Seba’ot, di una “paredra” (che siede accanto): Asherah, che sarebbe stata successivamente eliminata (annullata?). Si potrebbe quindi anche definire il monoteismo come “religione dell’annullamento”? E a questo punto ci si prospetta un’ipotesi piuttosto stuzzicante: e se il “diavolo” non fosse altro che il “ritorno”, sotto forma di “fantasma persecutorio”, delle divinità annullate, e in particolare di quelle femminili? Questa ipotesi spiegherebbe la particolare “sintonia” tra esso e le donne (a partire da Eva, fino alle streghe), nonché la storica demonizzazione di queste ultime, e potrebbe aprire un campo di ricerche cui potrebbero contribuire a pari titolo le competenze di storici e psichiatri.

2. Si può dare per scontata l’esistenza di un “pensiero ebraico” (come di uno “cristiano”, o uno “islamico”)? A nostro avviso, esiste soltanto un pensiero umano, pur nelle sue infinite variazioni. L’attributo “ebraico” ha avuto (e ha tuttora) una valenza estremamente ambigua: di volta in volta confessionale, culturale, linguistica, etnica, politica, e ciascuna di esse poggia su basi alquanto incerte (si veda ad esempio Schlomo Sand, L’invenzione del popolo ebraico, 2010). La costruzione di una “identità ebraica” unica sarebbe un falso storico, realizzato sottacendo (o annullando?) le diverse componenti confluite in essa nel corso dei secoli (vuoi per proselitismo, vuoi per conversioni con motivazioni politiche). Tale operazione culturale, avviata a metà del XIX secolo a ruota delle identità nazionali europee che si andavano consolidando, ebbe l’effetto collaterale di rinfocolare il tradizionale antiebraismo cristiano, e di presentare il “popolo ebraico” (“nemico interno”, e tuttavia alieno) quale capro espiatorio ideale per una ideologia (come quella heideggeriana e nazista) basata sull’unità di terra e sangue (Blut und Boden). A nostro avviso, dunque, il motivo della persecuzione e della “soluzione finale” non è tanto da rintracciare in una “diversità ebraica” reale, ma piuttosto, ancora una volta, in un “fantasma persecutorio” abilmente attizzato e sfruttato cinicamente da chi aveva ottenuto (anche grazie ad esso) il potere politico. 

Ewan McDirmmon


21/11/2015 — Fabio della Pergola

A suo avviso, esiste soltanto un pensiero umano, pur nelle sue infinite variazioni. Quella ebraica è, appunto, una di queste variazioni. Una variazione culturale.
Ma mi pare che lei confonda l’identità “culturale” ebraica (attestata da un patrimonio scritturale millenario) con l’identità “nazionale” ebraica (prodotto, come tutti i nazionalismi, del XIX secolo); confusione che non porta da nessuna parte. Il libro di Sand contesta l’idea nazionale, ricorrendo fra l’altro a qualche palese e discutibile dribbling fra gli avvenimenti storici, ma non direi proprio che dimostri l’inesistenza di una cultura ebraica persistente nel tempo. Come qualsiasi altra cultura ha ovviamente raccolto e fatte proprie contaminazioni derivanti dalla sua prossimità con i tanti popoli, culture, religioni diverse con cui è venuta a contatto. Ivi comprese conversioni o altro (peraltro non successive al X secolo se non in casi rari). Cosa c’è di particolare in questo? È il percorso di qualsiasi tradizione culturale.

Se poi si ritiene il sionismo causa (per quanto, bontà sua, “collaterale”) di un inasprirsi del tradizionale antiebraismo cristiano non credo che si possa parlare altro che di un ribaltamento, piuttosto evidente, di causa-effetto. È stato il progressivo inasprimento, in senso razziale, del tradizionale antigiudaismo a causare l’idea nazionale sionista, non il contrario.
La conclusione sulla “soluzione finale” (Endlösung, termine semanticamente prossimo a Erlösung, redenzione, il che è piuttosto interessante), non spiega come una realtà culturale (così incomprensibilmente negata) diventi un “fantasma persecutorio”, se non a seguito di un “annullamento”. Quindi il cane si morde la coda: perché la realtà (culturale) ebraica andava annullata, se non per la sua diversità? Ma per riconoscere la diversità (culturale) ebraica bisogna prima smettere di considerarne inesistente la realtà storica, e poi rimboccarsi le maniche per conoscerla. Come si fa a negarne la diversità se non la si conosce? E come si fa a negarne la diversità se la si conosce?

p.s.: concordo sulla definizione di monoteismo = ”religione dell’annullamento”, e quindi con l’idea che il vero monoteismo sostanzialmente derivi dal concetto di “creazione dal nulla”. Che è idea consolidatasi solo nell’ambito della teologia cristiana del II secolo. La conclusione potrebbe essere paradossale: contro l’opinione comune dovremmo dire che il monoteismo è idea originariamente cristiana, non ebraica né tantomeno biblica. Questo mi pare più interessante.

Saluti.


23/11/2015 — Ewan McDirmmon

Sgomberiamo anzitutto il campo da un malinteso: non era mia intenzione affermare l’inesistenza di una tradizione culturale ebraica né quella di una sua specificità, ma piuttosto evidenziare una sua complessità e articolazione, dovuta senza dubbio a un suo dinamismo interno, ma anche a contaminazioni con altre culture con le quali essa è venuta in contatto nel corso dei secoli. Ovviamente la stessa considerazione è valida per ogni altra cultura, e avevo menzionato quella cristiana e quella islamica solo per rimanere nei confini del monoteismo.

Quanto alla “confusione”, mi sembra di aver distinto chiaramente le diverse accezioni del termine “ebraico” (confessionale, culturale, linguistica, etnica, politica), la confusione è semmai generata proprio dall’uso piuttosto diffuso e indifferenziato dello stesso termine, lasciando nel vago l’ambito cui si riferisce, ed è tipica del termine “ebraico”. Non esiste, ad esempio, in corrispondenza, una “nazione cristiana”, né una “lingua cristiana”.

Nel libro di Sand viene esplicitato un legame (non so se possa esser definito propriamente di causa-effetto, trattandosi di dinamiche storiche, quindi umane) tra la prospettiva “assimilazionista”, che si era aperta sostanzialmente in seguito alla diffusione delle idee della Rivoluzione francese (universalismo di stampo illuministico), e la reazione “identitaria” di alcune componenti della “cultura ebraica”, con la loro pretesa di rileggere in chiave direttamente “storica” i testi sacri (inclusi molti dei miti in essi narrati). Checché ne dica la Di Cesare (vedi un suo recente articolo su Spinoza, sul “Corriere La Lettura” del 25/10, nonché quello, opposto, di Visentin su “il Manifesto” del 3/11), è solo in questo contesto che si produce (e può prodursi) il sionismo. Di recrudescenze del tradizionale antigiudaismo cristiano per la verità ce n’erano state diverse, nel corso dei secoli, e anche con episodi particolarmente efferati. Non mi sembra quindi che l’ipotesi di Sand (che, sia detto per inciso, dovrebbe far parte a pieno titolo della “cultura ebraica”) sia del tutto da scartare.

L’argomentazione sviluppata a proposito della “Endlösung” contro il “fantasma persecutorio” ha indubbiamente una sua logica, ma non sembra storicamente fondata. Gli esecutori dei pogrom in mezza Europa, le SS e gli aguzzini nei campi di sterminio, lo stesso Heidegger (per tornare all’argomento principale dell’articolo di Drummond) erano forse esperti conoscitori della Qabbalah o del Chassidismo? Penso si possa tranquillamente escludere. L’annullamento e la “percezione delirante” non presuppongono una conoscenza approfondita dell’altro, al contrario: la impediscono.

Aggiungerei una considerazione finale (che intende essere una richiesta e un’opportunità di chiarimento, non una fonte di polemica): Kafka era notoriamente ebreo, ma nonostante l’evidente influenza di alcune tematiche tipiche della “cultura ebraica”, le sue opere possono esser considerate universali. Anche Einstein era notoriamente ebreo, eppure nessuno (al giorno d’oggi) si sognerebbe di etichettare la sua Teoria della relatività come “fisica ebraica”. Sono solo due esempi, ma ne esistono innumerevoli analoghi nei più svariati ambiti della cultura. In quale contesto (o in quali contesti) e sulla base di quali elementi si può dunque ritenere valida una netta distinzione tra “cultura ebraica” e altre culture, al di fuori dell’ambito prettamente cultuale — o, se vogliamo, nel senso più ampio, religioso? Mi sembra che, in mancanza di criteri chiari e condivisibili che definiscano cosa fa parte della “cultura ebraica” e cosa no, la domanda su «la “diversità” ebraica rispetto alla cultura dominante» rimanga nebulosa, “metafisica” e, in definitiva, di scarso interesse — soprattutto per i “non addetti ai lavori”.

P.S.: la “madre di tutte le diversità” — della Pergola lo saprà benissimo — è quella della donna rispetto all’uomo (e viceversa), essendo entrambi “uguali e diversi”. Dovrebbe esser possibile stabilire un nesso (anche se ovviamente non di causa-effetto) tra una “diversità” e l’altra. Anche questo, riteniamo, potrebbe costituire un interessante spunto di riflessione.

Ewan McDirmmon


24/11/2015 — Fabio della Pergola

Che il sionismo sia interpretabile come reazione all’assimilazionismo mi pare alquanto discutibile, se è questo che voleva dire Sand (ma non mi pare che siano questi i termini della sua critica, quanto le modalità mitopoietiche con cui il sionismo si propose). Direi, casomai — e la letteratura in questo senso è molto ampia — che esso è derivato, dal rifiorire delle tematiche antigiudaiche riproposte in chiave laicizzata nella seconda metà dell’Ottocento. Cioè proprio dal fallimento dell’assimilazionismo illuminista.

Quanto alle diversità culturali, ovviamente articolate e complesse, lei chiede “sulla base di quali elementi si può pensare una netta distinzione tra “cultura ebraica” e altre culture, al di fuori dell’ambito prettamente religioso?”.
La risposta potrà sembrarle banale, ma a me pare assolutamente evidente che ogni religione veicola contenuti attinenti all’antropologia accanto a quelli propri della teologia.
L’esempio del rapporto uomo-donna è molto calzante: nel cristianesimo il rapporto sessuale è stato finalizzato, almeno fino a pochi decenni fa, esclusivamente alla procreazione, che legittima(va) ciò che è (o era, a voler essere generosi) considerato peccaminoso di per sé.
Basta ricordare l’opposizione ecclesiastica ad ogni tipo di anticoncezionale. La donna ideale, nella prospettiva salvifica cristiana, è vergine e madre.
Per gli ebrei vale invece, tuttora, un precetto talmudico, stabilito quindi almeno quindici secoli fa, che impone agli uomini l’obbligo di dare soddisfazione sessuale alle donne. A prescindere dal loro stato di fertilità o meno. Non esiste (se non in correnti minoritarie come gli ultraortodossi che derivano in buona misura dal già citato chassidismo) alcuna demonizzazione dell’identità sessuale femminile.
È sufficiente farsi una riflessione su questa differenza per capirne il portato storico.
Entrambe sono affermazioni che fanno parte delle culture “religiose”, secondo i testi e gli esegeti, ma direi che la diversità (culturale e antropologica) è tutt’altro che “nebulosa” o “metafisica” o, peggio ancora, di “scarso interesse”. A meno che non prevalgano i pre-giudizi, ovviamente.
Si potrebbe continuare, ma la conclusione è che una cultura ebraica, un “pensiero” ebraico, è sempre esistito e andrebbe tenuto in considerazione quando ci si pongono domande sullo sterminio degli ebrei. Da qui la frase del mio primo commento: siamo sicuri che si possa capire lo sterminio degli ebrei analizzando solo il “pensiero” (anche filosofico) degli sterminatori e non anche quello delle vittime? Proprio la teoria di Fagioli potrebbe essere strumento di fondamentale importanza per analizzare al meglio le differenze culturali che hanno portato allo sterminio stesso.


9/12/2015 — Ewan McDirmmon

L’universalismo illuminista — lo sappiamo — fallì proprio perché non si era liberato dell’alienazione religiosa, ma la tendenza all’assimilazione proseguì ben oltre il XIX secolo, come testimoniano non solo i due casi citati (Kafka ed Einstein) ma anche molti altri (Husserl, Benjamin, Svevo, Kraus, Salinger… la stessa Arendt, che fu allieva di Heidegger), per non parlare della recezione nell’ambito della “cultura occidentale” delle opere di Spinoza, di Marx, di Freud (per quanto si voglia metterne in discussione la validità, la loro recezione può essere considerata un fatto, e prosegue a tutt’oggi). Non è chiaro quindi come si possa imputare al fallimento dell’assimilazionismo la nascita del sionismo, se questa avvenne negli anni tra il 1862 (quando Moses Hess pubblica ‘Roma e Gerusalemme’) e il 1882 (primi insediamenti ebraici in Palestina). Ancora oggi, dopotutto, più della metà di coloro che si ritengono “ebrei” vive, ben integrata, al di fuori dei confini di Israele, e non manifesta alcuna intenzione di trasferirvisi.

Lo stesso concetto di “causa”, che trova nelle scienze della natura una sua precisa collocazione, mal si adatta alla complessità dei rapporti umani (mi pare lo affermi lo stesso Fagioli, cfr. il “perché” di ‘Storia di un caso’, e in particolare la nota 17, in ‘Istinto…’), e quindi anche alle discipline che studiano le vicende umane, come la politica, la storia, la linguistica, e persino l’economia. Preferiamo dunque pensare che nella Storia compaiano delle idee, pensate da esseri umani, e che tali idee possano propagarsi e suscitare trasformazioni e reazioni, talvolta dialettiche ma altre volte persino violente. Anche volendo ammettere che l’assimilazionismo illuminista fallì, perché sarebbe fallito se non proprio per (o con) l’insorgere in opposizione ad esso di tendenze nazionaliste che facevano pesantemente ricorso al concetto, sia pur scientificamente infondato, di “razza”? E per quale motivo — in tal caso — mettere il sionismo su un piano diverso dagli altri nazionalismi dell’epoca?

Quanto alle differenze “antropologiche” tra i vari monoteismi, la demonizzazione della sessualità operata in particolare dal cristianesimo ci pare assolutamente evidente, occorre però osservare che una cosa è la dottrina della Chiesa, un’altra è (ed è stata per secoli) la pratica, e non solo da parte del popolo, ma persino degli stessi prelati. Una tale doppiezza persiste anche al giorno d’oggi, ne sono esempio palese gli scandali che si susseguono in continuazione, come quelli relativi alla diffusione dell’omosessualità e della pedofilia nel clero. D’altronde, esiste nei vangeli cristiani il cosiddetto “comandamento dell’amore” (amerai il prossimo tuo come te stesso), che però è subordinato all’amor di Dio, e in quanto tale non ha mai impedito ai cristiani di attuare i più efferati massacri, nei confronti di ebrei, di musulmani, ma anche di altri cristiani ritenuti eretici, per non menzionare poi le popolazioni estranee al monoteismo, alcune delle quali sono state letteralmente sterminate.

Ora non possiamo non notare, nel precetto talmudico menzionato da della Pergola, l’uso del temine “soddisfazione”, che lascia sospettare un’equiparazione della sessualità ai bisogni primari (idea, del resto, abbastanza comune in svariate epoche e in differenti culture), e tuttavia vogliamo pensare che potrebbe trattarsi di un problema di traduzione o di terminologia imprecisa già nell’originale. Il punto più serio e — a nostro avviso — difficilmente aggirabile è però che si tratta di un “precetto”, che trae quindi la sua validità dal contesto di un “patto” stipulato tra il “popolo eletto” e Yahweh, e dunque non è espressione di principi universali basati sull’identità umana, ma discende e dipende in definitiva anch’esso dal volere divino.

Per sapere poi quanto il precetto menzionato incida realmente sulla pratica quotidiana, non ha ovviamente senso limitarsi a una discussione tra maschi, occorrerebbe quantomeno sentire il parere delle dirette interessate. Se è vero, come afferma della Pergola, che conversioni di massa successive al X secolo non ve ne furono, le cosiddette “unioni miste” proseguirono nei secoli, a dispetto della diffusa opposizione religiosa, e continuarono (e con ogni probabilità continuano) a costituire un problema. Ricordiamo, per citare solo qualche esempio noto, che tanto la moglie di Jaspers (famoso psichiatra e filosofo tedesco) quanto quella di Fermi (famoso fisico italiano) erano “di origine ebraica”, ma è ben difficile ipotizzare che si trattasse di casi isolati o eccezionali.

Non ci è chiaro se della Pergola, richiamandosi alla teoria di Fagioli, intenda prospettare la possibilità che esista un monoteismo “buono” (cioè “meno” annullante), contrapposto ad uno “cattivo” (cioè “più” annullante, quindi maggiormente violento) e che il confronto tra i due possa aver portato dapprima alla persecuzione e quindi al sistematico sterminio. Gli eventi storici (e purtroppo anche l’attualità) sembrerebbero indicare il contrario: discriminazione e violenza sono insite nella concezione stessa e nell’origine storica del monoteismo (quasi fosse un vero e proprio distillato dell’alienazione religiosa), e solo le circostanze fanno sì che esse possano emergere per mano dei fondamentalisti di turno. Per comprendere le dinamiche storiche e per contrastare la violenza nei rapporti umani non ci pare sia di grande utilità idealizzare le vittime, che saranno di volta in volta diverse, quanto riaffermare i principi universali di uguaglianza e libertà — il diritto di ciascuno di realizzare la propria diversità nel rispetto della dignità altrui — per la qual cosa la teoria della nascita di Fagioli ci sembra una base ottima e anzi indispensabile.

P.S.: a parziale rettifica di quanto sbrigativamente affermato in un commento precedente, dobbiamo puntualizzare che il “fantasma persecutorio” non si origina in seguito alla reazione di annullamento, ma piuttosto nel contesto di quello che viene definito “rapporto sadomasochistico”, il cui progressivo deteriorarsi porta alla “identificazione proiettiva”. Se abbiamo ben compreso, è proprio quando l’angoscia provocata dal “fantasma persecutorio” diviene insopportabile, che si fa la pulsione di annullamento.

Ewan McDirmmon


10/12/2015 — Fabio della Pergola

Questo dibattito potrebbe continuare all’infinito e, temo, diventare ozioso.
In ogni caso una risposta ancora è dovuta. Vado per punti.

— Non mi riesce facile capire come si possa parlare di successo dell’assimilazionismo dopo sei milioni di morti e centinaia di migliaia di persone in fuga. Dopo la guerra ovviamente l’Occidente ha guardato agli ebrei con occhi diversi e perfino la Chiesa ha modificato l’espressione “perfidi giudei” in “fratelli maggiori”, ma non per questo è diventato un ambito amichevole verso “gli altri”. Oggi tocca agli immigrati, non più agli ebrei — ritenuti non più “così diversi” — la palma del “diverso” e, a giudicare dai fatti più recenti (senza dimenticare il valido aiuto dei terroristi islamisti) mi sembra che le prospettive per i musulmani immigrati non siano affatto rosee.

— Quanto all'ipotesi che l’antisemitismo (l’espressione più evidente del fallimento dell’assimilazionismo) derivi dalla nascita del sionismo e non viceversa, suggerirei un bel libro di Maurizio Ghiretti, Storia dell'antigiudaismo e dell'antisemitismo, che titola un capitolo con un esaustivo “Restrizioni legislative e nascita dell’ostilità antiebraica “laica” nella prima metà dell’Ottocento”. La quale prima metà dell’Ottocento viene ovviamente prima di quel 1862 in cui Moses Hess (non a caso definito “proto”sionista) tracciò le prime ipotesi di un movimento nazionalistico ebraico, avendo osservato con attenzione, ben conscio dell’antisemitismo montante, i vari risorgimenti europei, da quello greco a quello italiano, da quello ungherese a quello tedesco.

Ugualmente mi sembra poco sensato accennare ai primi insediamenti (di ebrei russi) in Palestina nel 1882 “dimenticandosi” che nel solo 1881 i pogrom antiebraici furono oltre duecento (A. Foa, Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento) cioè un giorno di riposo ogni due di massacri in zone, guardacaso, anch’esse russe.

In sintesi la dinamica causa-effetto, al di là di ogni sottile disquisizione in merito, è in questo caso così ampiamente dimostrabile che continuare a discuterne mi sembra davvero un’inutile perdita di tempo il sionismo è nato come reazione “salvifica” all’antisemitismo montante. E questo aggettivo — “salvifico” — non solo parla, come già detto, del fallimento dell’assimilazionismo proposto dai valori della Rivoluzione francese, almeno fino al secondo dopoguerra, ma si potrebbe ipotizzare che costituisca una particolarità del nazionalismo ebraico rispetto agli altri nazionalismi europei sorti su basi più spesso fortemente ideologiche che non per reali esigenze di sviluppo dei popoli (anche se il sovranazionalismo degli imperi o della Chiesa non era certo granché).

Al più potremmo dire che il nazionalismo ebraico, in quanto nazionalismo, abbia costituito una rottura della tradizione ebraica; una rottura di stampo occidentalista e, quindi, un prodotto collaterale dell'assimilazionismo stesso, se proprio vogliamo spaccare il capello, ma mi sembra che questo porti fuori strada.

— Parlando di “differenze antropologiche” non capisco bene l’accenno alla “doppiezza” (la sessuofobia dogmatica della dottrina della Chiesa sarebbe stata resa meno significativa dal fatto che gli uomini e le donne “lo hanno sempre fatto lo stesso”). Mi sembra un modo discutibile di affrontare la questione come se la cultura dominante in Occidente non avesse provocato i danni che ha provocato. Un modo ambiguo che surrettiziamente serve ad annebbiare la differenza di quanto ho accennato in merito alla visione della sessualità femminile nell’ebraismo. Che, oltretutto viene sminuito in maniera evidente con la disquisizione sul “precetto teologico”, o sul concetto di “soddisfazione” eccetera. Un po’ si annacqua la devastante misoginia cristiana e un po’ si annacqua quella, decisamente meno devastante, dell’ebraismo. Come dire in fondo è tutto uguale.

Per fortuna ci sono gli storici che capiscono il “portato storico” di certe espressioni il significato dell’accettazione sociale (o quantomeno della non demonizzazione) della sessualità femminile porta a ritenere che «la donna ebrea non sembra provare la dissociazione della donna cristiana sposa-madre integerrima o vile prostituta», A. Scandaliato, L’ultimo canto di Ester. Donne ebree del Medioevo in Sicilia, 1999. Scusate se è poco. (E, a proposito della discussione “fra maschi”, evidenzio che si tratta di una donna, la storica Angela Scandaliato).

— Infine; la discussione fra “monoteismo buono e cattivo” è decisamente mal posta, fin dalla terminologia usata. Non si tratta affatto di discutere se una religione è meglio di un’altra, ma di valutare, con cognizione di causa, se i portati antropologici veicolati da una religione sono più o meno devastanti la realtà umana; posto a priori che ogni religione, di default, determina e accentua l’alienazione religiosa (il che è un po’ come scoprire l’acqua calda).

Mi pare che proprio il citato Fagioli da almeno una decina di anni sottolinei le differenze (antropologiche) tra il cristianesimo e l’Islàm (che, mi pare, è anch’essa una religione monoteistica), a partire dalla fondamentale differenza inerente il dogma di peccato originale che l’Islam (ed anche l’ebraismo, aggiungerei) non ha.

Sono questi portati antropologici che evidenziano differenze sostanziali fra le culture, sui quali è necessario secondo me (ma, come abbiamo visto, non solo secondo me) concentrare l’attenzione, pena scivolare ineluttabilmente in quella superficiale liquidazione praecox delle religioni di tanto illuminismo-razionalismo-marxismo che hanno lasciato le cose come stavano e che mi sembrano trasparire in qualche modo nei commenti del mio interlocutore.

In questo contesto inserisco anche la mia modestissima riflessione sullo sterminio degli ebrei europei che, a tutt’oggi, nessuno sa spiegare. Una riflessione che si concentra appunto sul “se e quanto” l’ebraismo abbia costituito, per venti secoli, una sorta di “fantasma persecutorio” — a partire forse proprio dal suo rifiuto di una colpa originale che per tutta la tradizione occidentale, sia religiosa che laica, è elemento fondante — che, ad un certo punto, è diventato insopportabile. Fino all’annullamento — far sparire i corpi “come se non fossero mai esistiti” (Fagioli) — di cui parla l’interessante articolo che stiamo commentando.

Non avrei altro da aggiungere su questo tema; quantomeno non nello spazio di un commento, se non sottolineare la sottile acidità dell’uso della locuzione “idealizzare le vittime”; qui non si tratta di idealizzazione, ma di conoscenza. Per avere la quale è tassativo non coltivare pre-giudizi. Anche ricordando che i pregiudizi antiebraici si fondano, nella quasi totalità dei casi, su un substrato culturale sostanzialmente cristiano.


2/1/2016 — Ewan McDirmmon

La sollecitudine con la quale Fabio della Pergola replica al nostro precedente commento evidenzia di per sé l’interesse dell’argomento. Dobbiamo tuttavia notare, come già avvenuto in precedenza, che il più delle volte egli tende a contestare e controbattere intenzioni e affermazioni che non ci appartengono e che non abbiamo espresso. Il nostro riferimento a Moses Hess e ai primi insediamenti in Palestina — ad esempio — aveva l’unico scopo di datare la nascita del Sionismo, senza implicare alcuna valutazione morale né di opportunità politica, e poiché il primo è appunto definito “proto”-sionista (come conferma lo stesso della Pergola) mentre i secondi non si possono più definire “proto”, il riferimento era nei fatti corretto, né ci era sembrato necessario fornirne una giustificazione — le parole usate, d’altronde, si trovano anche alla voce “Sionismo” di wikipedia, che non pare tacciabile di antigiudaismo.

Non ci siamo mai espressi in termini di “successo dell’assimilazionismo”; abbiamo semmai cercato di proporre una prospettiva secondo la quale una certa confluenza, in diversi campi (filosofia, scienza, letteratura ecc.), tra pensatori di origini (culturali) diverse — nella fattispecie “ebraiche” e “non ebraiche” — è sempre stata presente almeno fin da quando, con l’Illuminismo e la Rivoluzione francese, venne sostanzialmente ridimensionato il controllo diretto della Chiesa sulla produzione di cultura. Tali contributi — di cui abbiamo portato qualche esempio concreto, relativamente al XX secolo — proseguono tuttora e andranno anzi auspicabilmente intensificandosi (previsione peraltro in linea con quanto afferma della Pergola, secondo cui gli ebrei sarebbero ormai stati scavalcati, quanto a diversità “percepita”, dagli immigrati musulmani), per cui a noi sembra piuttosto fuorviante parlare di “fallimento”. Inoltre, se vogliamo dichiarare che l’assimilazionismo è fallito (e per giunta già a metà dell’Ottocento), allora ovviamente non restano che le identità culturali “nazionali” oppure “confessionali” e ci sembra, anche se speriamo di sbagliarci, che una tale concezione rischi di spianare la strada a quell’idea di “scontro di civiltà” che tanti danni ha già fatto, e molti altri potrebbe ancora produrne. Sono esistiti — e risulta esistano tuttora — milioni di ebrei non sionisti (o nazionalisti), così come milioni di “non ebrei” che non condivisero l’anti-giudaismo neppure quando esso era politicamente dominante; invece di considerarli “falliti”, ci piace pensare che la Storia abbia dato loro, almeno in parte, ragione.

In proposito, il nesso con il principio di causa-effetto non è casuale, né ci pare una “sottile disquisizione”: esso caratterizza e distingue le “scienze dure” (hard sciences) dalle scienze “umane” (a dirla tutta, il principio di causalità pare di dubbia applicazione fin dalla biologia evoluzionistica: qual è — per esempio — la “causa” della stazione eretta?). «La Storia non si fa coi “se” e coi “ma”» si dice sovente, ma laddove vige il principio di causalità, i “se” e i “ma” hanno senso eccome, così come ne ha il fare previsioni. Pare che fisici, per esempio, possano prevedere con una discreta accuratezza per quanto tempo ancora il nostro Sole rimarrà stabile nel suo stato attuale prima di esaurire l’idrogeno che gli fa da combustibile: più o meno cinque miliardi di anni. Nessuno sembra invece in grado di prevedere quando e in che modo finirà il capitalismo. Laddove entrano in gioco le idee, si direbbe — e forse anche i sentimenti — gli eventi tendono a prendere corsi imprevedibili. Azzardiamo: forse il pensiero umano, quando è veramente tale, è “innovativo” (ma potremmo anche dire “creativo”) e non “riducibile” al funzionamento delle strutture biologiche che lo supportano? In ogni caso, siamo convinti che non possa esser considerato una semplice “sovrastruttura”, come ritenevano i marxisti!

Veniamo alla “doppiezza”: il discorso non intendeva sminuire né annacquare gli effetti devastanti della misoginia dei teologi cristiani, ma semplicemente sottolineare che essa non ha rappresentato — come non rappresenta al giorno d’oggi — la totalità ma soltanto una parte, per quanto dominante nel corso dei due millenni della storia del cristianesimo (una precisazione simile, ci sembra, a quella dello stesso della Pergola nel suo commento iniziale a proposito di Zellini e il chassidismo). Possiamo pensare che ogni cultura contenga infatti al suo interno anche anticorpi in grado almeno di limitare gli effetti distruttivi che spesso le idee dominanti hanno. Senza questi anticorpi sarebbe difficile spiegare la persistenza di fenomeni come appunto i “matrimoni misti”, nonostante la plurisecolare contrarietà dei ministri di culto di entrambe le parti. La locuzione “idealizzare le vittime” era — lo ammettiamo — volutamente provocatoria, ma si riferiva esclusivamente alla contrapposizione tra “monoteismo buono” e “monoteismo cattivo”, una contrapposizione che noi appunto non accettiamo (sembra evidente, se non altro dal nostro discorso iniziale sul monoteismo come “religione dell’annullamento”). I nostri commenti si proponevano come occasione per esplicitare alcuni aspetti dell’argomento, e ci pare siano sostanzialmente riusciti nel loro intento.

Fatte queste precisazioni, ringraziamo Fabio della Pergola per la considerazione implicita nelle sue repliche, nonché per i riferimenti bibliografici forniti, che non mancheremo di approfondire, riservandoci di discuterne magari in altra sede. Un ringraziamento va anche, ovviamente, all’autore dell’articolo e a quei lettori che fossero stati spinti dalla loro curiosità e perseveranza a seguire il dibattito fino a questo punto.

Cordiali saluti,
Ewan McDirmmon


15/1/2016 — Fabio della Pergola

Ovviamente questo dialogo/disputa è interessante perché comporta riflessioni non banali sulla tragica storia recente e, indirettamente, anche sulle prospettive future.

Per tornare all’interlocutore: non conoscendolo, per via dell’anonimato, non ho alcuna idea di cosa gli “appartenga” o “non gli appartenga”. Mi limito quindi a leggere ciò che scrive. Che, a tratti, dà l’impressione di essere piuttosto ondivago.
Ma tutto ciò non è importante…
quello che davvero lascia perplessi è che si insista a negare il fallimento dell’assimilazionismo dato che il tema dell’integrazione delle minoranze si direbbe tutt’altro che superato: basta seguire l’attualità ed è noto che sia il modello multiculturale inglese che quello assimilazionista francese sono apertamente ritenuti “falliti”. E, va ripetuto ancora, dopo lo sterminio degli ebrei europei (non sarà il caso di inquadrarlo nel cosiddetto “scontro di civiltà”?), come se — temo che la logica sia questa — il nazismo abbia rappresentato una parentesi di improvviso impazzimento nel percorso evolutivo di una società razionalmente sana o sana in quanto razionale (a questo proposito non posso fare a meno di ricordare quantomeno il Baumann di Modernità e olocausto, ma — di più — rimando alla teorizzazione di Fagioli).
Se invece non è quello che si pensa allora si deve necessariamente dedurre che la civiltà occidentale abbia tuttora in sé ciò che ha portato alla prassi eliminazionista delle diversità: in altri termini l’assimilazionismo concepito sui valori della proposta illuministica o è già fallito o ha in sé i germi di un ulteriore prossimo fallimento. A meno che, naturalmente, gli “anticorpi” non abbiano la capacità di incidere culturalmente (e profondamente) su tali contenuti. Che sono i temi fondanti (fondativi) della civiltà occidentale, mica scherzi.
Ma questo implica una “previsione” e, come è stato detto, non è possibile: quando finirà il capitalismo? Quando sparirà il cristianesimo? Quando evaporerà la metafisica? Quando si smetterà di ipotizzare un superamento della metafisica privilegiando il Nulla assoluto? Boh.

Veniamo infine alla “doppiezza”: parliamo di culture “dominanti”, certo. Sono quelle che fanno la storia ben più dei “dominati” che certo esistevano anche loro. Quindi siamo d’accordo. La misoginia sessuofobica su cui si fonda il cristianesimo è stata devastante, nonostante uomini e donne abbiano continuato a farlo lo stesso. E l’antisemitismo cristiano o laico non è stato praticato da “tutti”, ma da masse più o meno ampie e gestito dai vari poteri ecclesiastici, politici e culturali. Questo cambia qualcosa per gli ebrei della prima metà del Novecento? Sicuramente per chi è stato salvato, dagli anticorpi che oggi vengono definiti “giusti fra le nazioni”, ma certo non per quei sei milioni finiti in cenere, direi. Con il valido contributo dei collaborazionisti, degli indifferenti, del silenzio delle culture, laiche e/o religiose dominanti; eccetera.

Sulla voluta provocazione tra monoteismo buono e monoteismo cattivo ho già detto la mia e ci tengo a scanso di equivoci, a ribadire il mio punto di vista: non è in questi termini banalizzanti che si può impostare una ricerca seria sull’alienazione religiosa.

Ho finito. E mi associo ai ringraziamenti: all’autore dell’articolo, all’acuto interlocutore e agli eventuali lettori di questo breve dibattito.


14/07/2016 — Enzo Waldmeister

Potrebbe forse interessare qualche lettore sapere che questo articolo di Edoardo B. Drummond compare in un elenco della bibliografia relativa alla pubblicazione dei Quaderni Neri (Schwarze Hefte) di Heidegger, pubblicato sul sito della Università di Siegen. La bibliografia in formato pdf può essere consultata (e anche scaricata) all’indirizzo seguente:

https://www.uni-siegen.de/phil/philosophie/tagung/bibliographie_zu_den_schwarzen_heften.pdf

L’articolo di Drummond vi compare circa alla metà del documento, alla data: 12. Oktober 2015.

Questo elenco include, insieme a contributi di noti studiosi di Heidegger di livello internazionale come Emmanuel Faye e Richard Wolin, anche alcuni interventi di Livia Profeti e articoli di Fabio Della Pergola.

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http://babylonpost.globalist.it/Detail_News_Display?ID=124397&typeb=0&il-ritorno-del-nulla
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