2015·10·18 - Repubblica • DeCataldo·G • Si racconta il brutto perché brutta è l’Italia oggi

Si racconta il brutto perché brutta è l’Italia oggi

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di Giancarlo De Cataldo
Repubblica — 18/10/2015

Nel 1952 Giulio Andreotti, censore di opere d’arte e spettacoli, accusò Vittorio De Sica di aver mandato in giro l’immagine distorta di un Paese misero, arrogante con i deboli, ossequioso sino all’untuosità con i potenti. La colpa di De Sica e del suo sceneggiatore Cesare Zavattini si chiamava ‹Umberto D.›. Un film che faceva del “disfattismo”: termine con il quale i poteri alla ricerca di consenso marchiano le voci critiche. La presa di posizione andreottiana si può leggere come un’imposizione di un limite: la rappresentazione del “brutto”. Andreotti esorta a tacere delle magagne nazionali perché suscettibili di seminare sfiducia: il brutto resti al di fuori dell’arte perché politicamente controproducente.

L’estetica del brutto era già stata affrontata dall’Ottocento. In un celebre saggio, il filosofo tedesco Karl Rosenkranz concedeva al brutto diritto di cittadinanza nell’arte a patto che fosse l’elemento soccombente nella dialettica col bello. Da qui la condanna di Hugo, Dumas e Sue (non a caso autori molto popolari e politicamente attivi).

Il tema di fondo lega il filosofo e il politico Andreotti: per opposte, ma convergenti ragioni, si prescrive all’artista di astenersi dal rappresentare l’osceno e il volgare. A meno di non relegarlo nel grottesco o nel comico. Negli ultimi anni, però, l’estetica del brutto ha fatto passi da gigante. È divenuta una cifra stilistica del contemporaneo: soprattutto in Italia, grazie a film e serie televisive che hanno avuto risonanza anche oltre i confini nazionali. L’idea che si possa rappresentare ed esportare un’immagine nazionale molto lontana dalla grandezza di Michelangelo o dal folklore non è più vista con scandalo.

L’estetica del brutto resta una questione solcata da un viluppo di profili tecnici (la rappresentazione) ed etico-politici (se sia legittimo imporre dei limiti). Perché è vero, da un lato, che le narrazioni di territori degradati, di violenza a volte insensata, di esistenze disperate, sono merce corrente, molto meno dirompente di un tempo, ma è altrettanto vero che la voce della critica “etica” (o di quella politica mascherata da etica) è forte. Non a caso il contrasto più acuto è sul terreno del crime.

Oltre ad aver dato origine al termine, di uso globale, “Mafia”, l’Italia è un Paese nel quale si dubita delle verità ufficiali e pressoché in ogni epopea criminale si assiste a patti inconfessabili fra Strada e Palazzo, coinvolgimenti di insospettabili, la presenza ossessiva della criminalità organizzata. Presenza resa tangibile dal “brutto” degli agglomerati di periferia o del caos di grandi centri urbani. Se questa è la “modella Italia”, come possono i pittori raffigurarla diversamente? E altro che consenso: le critiche fioccano. ‹Romanzo Criminale› fu accusato di rendere eroici dei delinquenti. A ‹Gomorra - la serie› una simile accusa fu risparmiata perché i Savastano and co. sono troppo brutti per suscitare immedesimazione, e allora si ripiegò su altri versanti: Napoli non è solo camorra, l’Italia non è solo degrado. Andreottianamente: se è vero che, dopo averlo criticato, Andreotti esortò De Sica a prendere atto che «ovunque vi sono rivoli di bene, che, individuati, fruttificano». Ma il compito dell’artista può ridursi alla glorificazione del Bene?

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