2015·10·25 - CorLettura • DiCesare·D • Il sionista Spinoza

Il sionista Spinoza

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Il filosofo ebreo, mai «scomunicato» dai rabbini, vedeva nella Bibbia le origini della democrazia e ipotizzava la nascita di un nuovo Stato d’Israele
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di Donatella Di Cesare
Corriere - La Lettura — 25/10/2015 (domenica 25 ottobre 2015)

Può capitare di salire su un autobus, fermo alla stazione di sosta, e di imbattersi in un autista immerso nella lettura di un libro. La sorpresa aumenta quando si riesce a scorgere il titolo. Il libro è l’‹Etica› di Baruch Spinoza, la stazione degli autobus è quella di Tel Aviv.

Ma che ci fa Spinoza in Israele? Non è stato forse «scomunicato», espulso dal popolo ebraico già secoli fa? Come mai il suo spettro si aggira nel cuore della società israeliana? Per rispondere occorre ripartire proprio dal mito di quella «scomunica» che continua a essere divulgato in modo acritico. Secondo la versione più diffusa, il 27 luglio 1656 le autorità rabbiniche della comunità di Amsterdam avrebbero «scomunicato», con tanto di cerimonia lugubre, celebrata sotto la volta della sinagoga dello Houtgracht, Bento Spinoza, registrato con il nome ebraico di Baruch. La scena assume un valore emblematico: è l’apice dello scontro fra il libero pensiero e la rigida ortodossia ebraica, tra l’apertura della scienza e l’intolleranza della religione. La condanna di Galilei e la «scomunica» di Spinoza segnerebbero la fine di un’epoca buia, inaugurando la modernità.

Descritta talvolta con dovizia di particolari, tra candele nere, voci accorate, suono dello ‹shofàr›, la scena della «scomunica» non si è mai verificata. Frutto di una immaginazione, per nulla innocente, è la «scomunica» stessa. Da che cosa avrebbe dovuto essere «scomunicato» Spinoza? L’ebraismo non ha, a differenza della Chiesa, né un’autorità centrale né un dogma teologico, sulla cui base si possa impedire la «comunione» di sacramenti. Secondo le ricerche condotte negli ultimi anni si può dire che, in una saletta attigua alla sinagoga, i ‹parnassìm›, le autorità laiche, i capi riuniti nel ‹ma’amad›, il consiglio della comunità, diedero lettura di un testo in ebraico, andato perduto, di cui depositarono una copia in portoghese: per via delle sue ‹horrendas heregias›, «orrende eresie», si vietava ai membri della comunità di Amsterdam di avere ancora rapporti con Bento Spinoza.

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Il divieto non fu rispettato. Dal canto suo Spinoza, che non era presente alla lettura, per difendersi inviò un testo in spagnolo, la ‹Apologia›, di cui non resta traccia, ma che dovette confluire nel suo celebre ‹Trattato teologico-politico›. L’evento non ebbe risonanza. La comunità prosperò e fiorì senza il giovane ribelle, il quale continuò a frequentare gli amici di prima e a sviluppare le sue «idee eretiche».

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Oscuro resta il motivo concreto del provvedimento: forse Spinoza aveva deciso di disfarsi dell’eredità del padre, un cumulo di debiti, forse non aveva pagato le quote alla comunità, forse fu colto in flagrante mentre, insieme a Juan de Prado, violava apertamente lo ‹Shabbat›. Ma Spinoza, per carattere, era riservato e introverso; non amava la ‹bagarre›. La serena intimità dei quadri di Vermeer non deve ingannare: tra i canali del quartiere di Vlooienburg, nella «Gerusalemme olandese», i conflitti erano all’ordine del giorno. I vecchi marrani, che avevano resistito alle persecuzioni in Spagna e Portogallo, erano convinti di aver conservato in segreto l’ebraismo. Non ne avevano, però, che un pallido ricordo. L’impatto con la tradizione, che si era mantenuta viva negli altri Paesi europei, fu dunque traumatico. Giunsero da Venezia rabbini famosi come Rabbi Saul Levi Mortera, per insegnare a quegli ex conversos che Purim non era, come loro immaginavano, la festa di Santa Ester.

Fioccavano perciò i provvedimenti di ‹cherem›, di bando dalla comunità. Lo storico Yosef Kaplan ne ha contati almeno 40 nel periodo tra il 1622 e il 1683. Il ‹cherem› poteva durare anche solo un paio di giorni. La tensione era alta anche all’esterno. I capi della comunità dovevano dimostrare alle autorità olandesi che gli ebrei, oltre a seguire l’ortodossia, si guardavano bene dal sostenere idee politiche troppo radicali. Che fare con il giovane Spinoza, strenuo difensore della democrazia e della sovranità popolare? Il ‹cherem› ebbe, dunque, un valore politico. Ma a che scopo alimentare il mito della «scomunica», come hanno fatto già i primi biografi, Johan Colerus e soprattutto Jean-Maximilien Lucas, che riportano notizie tendenziose e apocrife?

Ha parlato, senza mezzi termini, di «antisemitismo» Richard Popkin, tra i maggiori studiosi del filosofo: sulla scia di precedenti illustri, Spinoza è stato dipinto come un martire per gettare discredito sulla comunità di Amsterdam e su tutto il mondo ebraico.

Eppure Spinoza è rimasto sempre ebreo. In veste geometrica e in lingua latina ha articolato la tradizione ebraica, inserendola nella riflessione europea. Di qui la straordinaria complessità della sua opera. Né ricchezza, né onore, né piacere sono beni certi. Eppure li inseguiamo ogni giorno, lasciando la nostra vita in balia di passioni e sbalzi morali che la turbano. Questo patetico amore per il bene effimero non è che idolatria. Chi è eticamente libero non teme la sorte avversa né attende ricompensa nell’aldilà.

Per spezzare le catene della schiavitù etica occorre amare ciò che è infinito, eterno, perfetto. Solo l’«amore intellettuale di Dio» è fonte di «letizia» — e nella ‹laetitia› riecheggia l’ebraico ‹simchà›. Che cosa significa, d’altronde, l’emendazione dell’intelletto, di cui Spinoza parla nel suo primo trattato? A chiarirlo è l’ebraico ‹tikkùn›, riparazione. Emendare l’intelletto vuol dire ricondurlo al Sommo Bene. Perfino la formula ‹Deus sive natura›, secondo cui Dio è natura, non è la negazione della trascendenza, ma proviene — come ha mostrato il noto studioso Moshe Idel — dalla Kabbalà. Lo aveva già detto, d’altronde, in un saggio del 1864, il grande rabbino di Livorno Elia Benamozegh.

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Il mondo ebraico non ha mai dimenticato Spinoza. Certo, ha guardato con qualche sospetto quel primo grande intellettuale della modernità. Tracce di ciò si rinvengono nel breve racconto di Isaac B. Singer ‹Lo Spinoza di via del Mercato›. Nahum Fischelson, un filosofo in pensione, viveva nella quieta solitudine del suo piccolo appartamento di Varsavia, lontano dalla comunità. Di tanto in tanto gettava un’occhiata sulla via del Mercato, poi tornava beato a leggere l’‹Etica› di Spinoza. Ma improvvisamente si ammalò. Una vicina, Dobbe la nera, fu presa allora da pietà; superato il timore per l’«eretico», andò ad accudirlo. Sbocciò l’amore e, inatteso, si celebrò il matrimonio. Durante la prima notte di nozze, l’anziano filosofo, finalmente felice, si affacciò alla finestra. «Aspirò profondamente l’aria della notte, poggiò le mani tremanti sul davanzale e mormorò: “Divino Spinoza perdonami. Sono diventato uno sciocco”».

Ma l’immagine dell’eretico, riflessa dall’esterno, non ha mai fatto presa nel mondo ebraico, screditata e confutata da un approfondito dibattito sul ‹Trattato teologico-politico›. Di solito quest’opera è letta come un attacco all’ebraismo. Vengono omessi, a questo scopo, due lunghi capitoli dedicati alla «Repubblica degli ebrei».

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Spinoza può allora essere presentato come il pioniere del pensiero secolare, come appare nella versione addomesticata che ne dà Steven Nadler. Come mai Spinoza si sofferma sulla costituzione del popolo ebraico? Non sono stati i greci a introdurre la democrazia. Spinoza punta l’indice contro Platone e Aristotele. Non solo hanno affiancato la democrazia all’aristocrazia e alla monarchia, non solo hanno visto nel potere dei più una forma deteriore di governo, ma hanno persino tollerato al margine la schiavitù. Dove c’è schiavitù, però, non ci può essere democrazia. Per Spinoza è stato il popolo ebraico a introdurre per la prima volta la democrazia nella storia del mondo. In una pagina magistrale situa quell’istante all’uscita dall’Egitto. Liberati dall’oppressione, gli ebrei seguirono il richiamo del Dio sovversivo che fece uscire il popolo «con braccio teso».

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Furono finalmente cittadini, non più sudditi. Una volta riconquistato il proprio diritto, avrebbero potuto conservarlo ciascuno per sé, o trasferirlo ad altri. Invece presero una decisione che li distinse da tutti gli altri popoli. Con le parole di Spinoza: «Decisero di non trasferire il proprio diritto a nessun mortale, ma soltanto a Dio e, senza esitare, promisero tutti ugualmente a una voce», ‹uno clamore›.

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Nel patto teologico-politico che stringono non ci può essere dominio di un essere umano sull’altro. Se ci fosse, verrebbe meno l’eguaglianza di tutti. La forma politica di Israele è la teocrazia. Anzi, ‹theocratía› è la traduzione greca dell’ebraico ‹Israel›, «che Dio regni!», il «Regno di Dio». Il potere di Dio garantisce che non ci sia comando, dominio di un essere umano sull’altro.

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Martin Buber e Jacob Taubes parleranno perciò di «teocrazia anarchica» di Israele. Nella visione radicale di Spinoza la teocrazia è però sospesa non appena il popolo ebraico riconosca un altro potere. L’ebreo divenuto cittadino della Repubblica d’Olanda non è tenuto più a osservare lo Shabbat, che ha anche un eminente valore politico. Della teocrazia ebraica resta allora il «braccio teso» del popolo, gesto di libertà, simbolo di uguaglianza, promessa di democrazia, esempio per tutti gli altri popoli, impegno di Israele nel futuro.

Che ne sarà allora della «Nazione ebraica» in esilio? Per Spinoza l’«elezione» degli ebrei, legata alla storia, è politica, motivata dalla loro forma di governo. E scrive: «Potrei assolutamente credere che, se si presentasse la possibilità, gli ebrei ricostruiranno un giorno il loro Stato e Dio li eleggerà di nuovo».

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Spinoza è stato il primo sionista? L’aveva già riconosciuto con chiarezza Moses Hess nel suo scritto del 1862 ‹Roma e Gerusalemme›. D’altronde Spinoza è stato anche il primo vero linguista dell’ebraico. Il suo ‹Compendio di grammatica ebraica› è lo studio pionieristico dell’ebraico vivo, la dimora che, per Spinoza, attendeva la nazione ebraica in esilio.

Ahinu attà›, «sei nostro fratello!». Il 21 febbraio 1927 Yosef Klausner pronunciò un discorso ufficiale all’Università ebraica di Gerusalemme in cui toglieva il bando e rivendicava Spinoza alla cultura ebraica. Quando mai aveva contato quel ‹cherem›? — commentò caustico Gershom Scholem. Nel 1953 Ben Gurion proclamò che era venuta l’ora di riparare al torto e tradurre Spinoza in ebraico. Emmanuel Levinas criticò dapprima Ben Gurion, ma poi a sua volta scrisse ‹Avete riletto Baruch?› L’edizione delle opere in ebraico ha prodotto una rinascita di studi. Fondato da Yirmiyahu Yovel nel 1984 il Jerusalem Spinoza Institute è solo uno dei centri universitari dove si discute, non senza toni accesi, l’eredità del grande filosofo. Poco note sono ancora in Italia le ricerche dell’ultimo decennio su Spinoza e, più in generale, sul pensiero politico ebraico.

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ANNOTAZIONI E SPUNTI
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NOTA — Baruch Spinoza (Amsterdam, 24 novembre 1632 – L’Aia, 21 febbraio 1677) il 27 luglio 1656 (data della sua “scomunica”) aveva 23 anni. Non risulta che l’editto di ‹cherem› sia mai stato revocato (la stessa Di Cesare non ne fa cenno, limitandosi a considerazioni generiche); cfr. wikipedia (che riporta anche il testo dell’editto in trad. it.).
• [§·4] • «un testo in spagnolo»? Perché Spinoza avrebbe dovuto inviare un testo in spagnolo? La sua famiglia era originaria del Portogallo, ma aveva appreso anche il nederlandese (cfr. Mignini 1994², p. 169) e poi l’ebraico (alla scuola della comunità giudaico-portoghese di Amsterdam); solo tra il 1656 e il 1658 frequenta la scuola di latino aperta da van den Enden nel 1952. Non risulta invece conoscesse lo spagnolo, eppure è il filosofo Pierre Bayle (1647–1706), contemporaneo di Spinoza, a dar notizia di una ‹Apologia› scritta in tale lingua, che tuttavia non è mai stata ritrovata, né risulta mai stampata. Il titolo completo sarebbe ‹Apologia para justicarse de su abdicacion de la sinagoga›.
• [§·5] • Nessuna delle motivazioni addotte sembra tale da giustificare un editto di ‹cherem›; il padre Michael muore nel 1954, e il giovane Bento che all’età di 21 non è ancora maggiorenne [sic!], deve accettare un tutore (cfr. Mignini, p. 170).
• [§·10] • «filosofo in pensione»? A quale età si va in pensione da filosofi?
• [§·12] • Questa visione — non si sa quanto attribuibile a Spinoza e quanto alla Di Cesare — pare un po’ idealistica; la schiavitù era ben presente anche tra le popolazioni di Giuda e Israele (tanto che i testi sacri si adoperavano per limitarne gli effetti negativi), come del resto tra quelle circostanti, di origine ugualmente tribale. Non vi fu nessuna «uscita dall’Egitto», il mito dell’Esodo venne inventato diversi secoli dopo. Ma il «braccio teso» era quello di Yahweh o quello del «popolo»? (cfr anche il punto [15].)
• [§·13] • «Furono finalmente cittadini, non più sudditi» ma il concetto di “cittadino” non è della Rivoluzione francese (cioè dopo l’Illuminismo)? E poi dopo l’Esodo non subirono per secoli le scorrerie e la dominazione di Egizi, Assiri, Babilonesi, Caldei, Persiani, e infine anche dei Romani?
Anche tutto quel che segue è chiaramente un’invenzione, non accadde nulla di tutto ciò: non era un’assemblea di condominio e non ci fu nessuna decisione assembleare, tra continue guerre, distruzioni e deportazioni non si vede proprio come avrebbero potuto prendere una decisione unanime.
• [§·14] • Ma se Israel era il nome di un regno con tanto di casa regnante! (E, peraltro, anche in epoca non ancora monoteista!) Sembra un caso lampante di “falsa etimologia”! «Il potere di Dio garantisce che non ci sia comando, dominio di un essere umano sull’altro» e tutta la storia della Chiesa cattolica, con la sua struttura gerarchica, non esiste? La Di Cesare sembra qui avvalorare (intenzionalmente o meno) la tesi catto-comunista secondo cui i pricipi religiosi costituirebbero un valido baluardo, l’unico rimasto dopo il crollo del comunismo, contro oppressione e sfruttamento capitalistico.
• [§·15] • Questa storia del «braccio teso» andrebbe chiarita meglio; anche il saluto nazista (come quello “romano” da cui proveniva) era a «braccio teso» ma di certo non alludeva alla democrazia!
• [§·17] • «studio pionieristico dell’ebraico vivo, la dimora che, per Spinoza, attendeva la nazione ebraica in esilio» non puzza di Heidegger? Moses Hess (Bonn 1812 – Parigi 1875), filosofo, politico e attivista tedesco, aderente al socialismo ed al comunismo, fu un precursore del sionismo; ‹Roma e Gerusalemme› è del 1862 (cfr. wikipedia).
NOTA 2 — All’articolo della Di Cesare risponde quello, peraltro molto ben documentato, di Stefano Visentin su “il manifesto” del 3/11/2015 (qui).

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