2015·12·12 - Fatto • Vattimo·G • Non basta un Quaderno nero per liquidare Heidegger

Non basta un Quaderno nero per liquidare Heidegger

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IL CONVEGNO A ROMA — In molte relazioni si è sentita un’aria di bilancio finale, una sorta di presa di congedo da un personaggio che non avrebbe più niente da dire a noi e alle nuove generazioni
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L’adesione al nazismo è cosa nota, tuttavia è difficile non essere profondamente scossi dalla esplicitezza di talune posizioni
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I testi aggiungono poco, quasi solo la prova che gli interessi politici non furono affatto un aspetto marginale
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Scelse Hitler contro la organizzazione totale delle società industriali. Una contraddizione oggi evidente
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Martin Heidegger nacque in Baden-Württemberg (sud ovest della Germania) nel 1889 e morì a Friburgo nel 1976. È considerato il maggior esponente dell’esistenzialismo ontologico e fenomenologico. La sua opera principale “Essere e tempo” uscì nell’aprile 1927
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Il filosofo dell’esistenzialismo
Martin Heidegger (1889-1976). Sopra Adolf Hitler durante una parata militare a Berlino nel 1941 (LaPresse)
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di Gianni Vattimo
il Fatto quotidiano — 12/12/2015 (sabato 12 dicembre 2015), p. 22.

Liquidare Heidegger? Questa domanda, che circola da tempo nel dibattito pubblico non solo italiano, si ripresenta ancora una volta dopo il recente convegno tenutosi a Roma per iniziativa del Dipartimento di Filosofia della Sapienza, con l’appoggio dell’ambasciata tedesca e della Fondazione Humboldt, e diretto da Donatella Di Cesare, la massima esperta italiana del tema. Che erano i ‹Quaderni neri› di Heidegger, i quattro volumi di note, appunti, osservazioni varie che il filosofo scrisse tra il 1931 e il 1948 lasciando scritto nel testamento che essi avrebbero dovuto venir pubblicati alla fine delle sue opere complete; queste, in numerosissimi volumi sono stampate dall’editore Klostermann, che vi ha annesso, come volumi 94, 95, 96, 97 appunto i quaderni, curati da Peter Trawny, per un totale di circa 1.700 pagine. Di questi volumi, il primo (anni 1931-38) è uscito di recente presso Bompiani ottimamente tradotto da Alessandra Iadicicco; e proprio in questa occasione si è riaperta la discussione sul già molto discusso autore di ‹Essere e tempo›.

I QUADERNI — neri, purtroppo non solo per il colore delle copertine dei manoscritti, — non sono trattazioni sistematiche, ma per lo più appunti e quasi pagine di diario: devono dunque essere letti insieme alle opere edite in vita dall’autore e agli altri testi postumi ora disponibili nella ‹Gesamtausgabe› di Klostermann.

Ma perché parlare di liquidazione, a fronte di un così imponente lascito filosofico (sul quale i due testi più significativi sono quelli di Donatella Di Cesare, ‹Heidegger e gli Ebrei›, 2014, Bollati, e ‹Heideger & Sons›, ivi 2015)? Al convegno romano hanno partecipato autorevoli studiosi di tutto il mondo, e una gran folla di studenti appassionatamente interessati.

Tuttavia, proprio nella maggioranza delle relazioni presentate a Roma, e specialmente in alcune di esse (pensiamo a Bensoussan, a Sloterdijk, a Vitiello),si percepiva appunto la domanda su che cosa possiamo ancora farcene di Heidegger; non solo dopo i ‹Quaderni›, ma, anche di tutta la sua opera.

Nei Quaderni viene infatti in luce piena il tragico “errore” che era già ben visibile nelle opere edite, che hanno assicurato a Heidegger la fama di grande ‹maître à penser› della filosofia del Novecento, a partire da ‹Essere e tempo› del 1927.

Heidegger, nel 1933, si schierò apertamente con Hitler divenendo, per un breve periodo, rettore dell’Università di Friburgo, e rimase iscritto al partito per gli anni seguenti, fino ad essere “epurato” dagli Alleati alla fine della guerra.

RISPETTO a ciò che si era già letto nei testi editi in vita (anzitutto in alcune pagine della ‹Introduzione alla metafisica› del 1935, e nei già postumi ‹Contributi alla filosofia›, scritti nel 1938 ma usciti solo in anni recenti) i ‹Quaderni› aggiungono poco di nuovo, quasi solo la prova che gli interessi politici di Heidegger non furono affatto un aspetto marginale del suo pensiero, e dunque che il suo rapporto con il nazismo e l’antisemitismo è stato ben più che un “errore” di carattere puramente pratico o una caduta morale senza legami organici con il resto della sua filosofia.

MA ANCHE coloro che si sono professati per tanto tempo heideggeriani (il sottoscritto lo è ancora) sono stati profondamente scossi dai ‹Quaderni› proprio per la esplicitezza delle posizioni che vi si leggono. E ciò nemmeno tanto per il filonazismo, largamente mitigato da affermazioni duramente critiche nei confronti della sua versione “volgare” che caratterizzava la politica e i personaggi del regime. Né per l’antisemitismo, che, con Di Cesare, possiamo chiamare antisemitismo metafisico, anch’esso niente affatto Confuso con [+la?] politica pratica della “soluzione finale” che ispirò lo sterminio. Mutuando — colpevolmente e acriticamente — stereotipi e pregiudizi della cultura tedesca del primo Novecento, Heidegger considerava il popolo ebraico come il rappresentante più emblematico della civiltà tecnologica che egli aborriva: gli Ebrei erano secondo lui un popolo senza terra (la diaspora) e perciò senza un vero radicamento storico; un popolo calcolatore (le banche) e perciò portatore di una razionalità astratta che stava alla base della razionalizzazione (capitalistica, ma anche staliniana) del mondo e delle oppressioni che l’accompagnano.

QUANDO SCELSE Hitler nel 1933 era soprattutto la crescente organizzazione totale delle società industriali (ispirata al razionalismo scientifico) il suo nemico principale. La follia, e anche la autocontraddizione filosofica, di questo atteggiamento sono per noi evidenti: non solo la Germania hitleriana era anch’cssa una potenza industriale superorganizzata; ma per la stessa filosofia heideggeriana non si poteva immaginare di ricreare nel mondo attuale quella mitica Grecia preclassica che era il sogno di Nietzsche e di poeti come Hoelderlin.

•[§·10]•
Soprattutto su questi aspetti di filosofia della storia, oltre e insieme ai temi nazisti e antisemiti, si appuntano oggi coloro che in qualche senso vorrebbero liquidare Heidegger. C’è qui certo anche una componente di ideologia democratico-progressista, una sorta di sfondo “atlantico” ben percepibile in opere come quella di E. Faye (‹Heidegger…vedi›), centrate sulla stigmatizzazione del suo antisemitismo: Che [sic!] Heidegger non si sia mai pubblicamente “pentito” del suo nazismo è anche una grave ferita alla fede nell’Occidente libero e giusto che ha fatto giustizia a Norimberga e che oggi sta sotto la protezione della Nato, del liberismo economico della globalizzazione tecnologicamente diretta [sic!].

Simili intenzioni liquidatorie non ispiravano certo tutti i relatori del convegno di Roma; ma è indubitabile che in molte delle loro relazioni si sentisse come un’aria di bilancio finale, una sorta di presa di congedo da un personaggio che non avrebbe più niente da dire a noi e soprattutto alle nuove generazioni.

ANCHE PERCHÉ la sua visione della storia sembra non prevedere un futuro in qualche senso praticabile. Soprattutto negli ultimi ‹Quaderni›, il discorso è tutto pieno di riferimenti a un misterioso “ultimo Dio” e a un altrettanto misterioso “nuovo inizio”.

Sono questi aspetti quasi mistici che hanno prevalso spesso nel dibattito di Roma ed anche negli autori che ne hanno parlato su alcuni giornali (Antonio Gnoli e Angelo Bolaffi su ‹Repubblica› del 17 novembre), alla cui preparazione dovrebbe essere chiamato “il popolo tedesco”. Il quale peraltro, come appare sempre più nelle ultime pagine dei ‹Quaderni›, non ha molto da fare perché l’eventuale nuovo inizio dipende solo dall’Essere e non da una qualche possibile iniziativa umana.

Questo disperato pessimismo è tanto più grave se si ricorda che, nonostante l’interesse per la storia e la politica attestato dai ‹Quaderni›, Heidegger non ha mai parlato di etica proprio perché solo dall’Essere dipende tutto. Di contro, però, nelle sue opere, non solo in quelle giovanili, sta l’ossessione per l’esistenza autentica, per la decisione che l’uomo deve assumere per non confondersi con l’anonimo mondo del “man”, che sempre più si identifica per lui con l’oppressione globalizzata del mondo tecnologico (e capitalistico, potremmo aggiungere con qualche buona ragione).

Secondo la migliore tradizione della filosofia, da Platone a Nietzsche o a Wittgenstein, anche Heidegger vede il proprio compito come un richiamo alla vita “vera” e non solo come una contemplazione disincantata del destino mortale dell’essere. La famosa frase dell’ultima intervista a ‹Der Spiegel›, “ormai solo un Dio ci può salvare”, non è forse l’espressione di una disperazione senza sbocchi, ha anche il senso di evocare un [=una?] possibilità di salvezza, da quel (questo) mondo del dominio totale che Heidegger aborriva non meno di altri filosofi come Adorno.


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ANNOTAZIONI E SPUNTI
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•[§•10]• Si tratta forse di Emmanuel Faye, ‹Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia›, edito da L’asino d’oro?
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